Le decisioni irrevocabili

Ottant’anni fa, il 10 giugno 1940, Benito Mussolini, dal balcone di Palazzo Venezia, dichiarava guerra alla Francia e all’Inghilterra. Fu l’inizio della fine del fascismo.

Mentre il millenovecentoquaranta giungeva fiacco, senza far esplodere alcun fuoco d’artificio e privo di fervore, il grande polpo nero dalla croce uncinata nazista allungava i suoi lunghi tentacoli sui deboli e intimoriti paesi del continente europeo. Prima l’Austria, poi i Sudeti, e ora la Francia e l’Inghilterra che tentavano di aggrapparsi alle poche speranze che poteva garantire l’inutile Linea Maginot. Intanto in Italia era cominciata la razionalizzazione dei generi alimentari e gli italiani, che mugugnando facevano provviste di sardine in scatola, nelle strade, nei bar e nei mercati scommettevano sulla data dell’entrata in guerra. Tutti attendevano la dichiarazione di un conflitto che nessuno sentiva proprio ed Eduardo De Filippo, nei teatri di Roma, portava una commedia che conteneva questo racconto: “Un giorno, un contadino cinese aprì la stalla e vide che tutti i cavalli erano scappati. La famiglia si mise a piangere per la disgrazia, ma il contadino disse: “E chi vi dice che sia una disgrazia?”. Infatti, di lì a poco, i cavalli tornarono, portandone con loro molti altri allo stato brado. La famiglia batté le mani alla fortuna, ma il contadino disse: “E chi vi dice che sia una fortuna?”. Infatti l’indomani suo figlio, per domare uno di quei cavalli, cadde e si ruppe una gamba. La famiglia ricominciò a piangere per la disgrazia, ma il contadino disse: “E chi vi dice che sia una disgrazia?”. Infatti di lì a poco scoppiò la guerra, e il figlio del contadino, avendo la gamba rotta, fu esentato dal parteciparvi”. Su quel vecchio racconto cinese i romani sospirarono ad una terribile attualità italiana. “Se mi rompo una gamba stasera, faccio un affare”, borbottavano gli uomini nell’atmosfera tombale dei teatri, allo stesso tempo pensierosi e preoccupati.

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Arrivò giugno e con esso il grande caldo, che i romani tentavano di combattere all’aperto, seduti nelle movimentate piazzole dei bar. Nel frattempo la armate di Hitler avevano invaso la Francia e come un’inarrestabile carovana di cavalli irrequieti si dirigevano verso Parigi. La sera del giorno nove Mussolini, riparato dietro la finestra del suo ufficio in Piazza Venezia, diede ordine di spegnere i lampioni e di oscurare Roma, per dare alla gente un primo assaggio di quello che sarà il clima bellico. E i romani, scivolando fuori dai bar di una città completamente al buio, invasa improvvisamente dalle tenebre, capirono che quella dichiarazione, aspettata senza voglia per nove lunghi mesi era arrivata. Il Duce decise di entrare in guerra il venticinque maggio e informò Hitler che “l’Italia non intende restare con le mani alla cintola e che a partire del cinque giugno sarò pronto a dichiarare guerra all’Inghilterra”. I suoi più stretti collaboratori, tra cui Balbo e Badoglio, tentarono di dissuaderlo senza successo. La drammatica condizione militare italiana, con la Francia ormai schiacciata sotto il peso dei panzer tedeschi, passava in secondo piano e Mussolini si convinse che qualche migliaio di morti sarebbero bastati per capovolgere quello che gli alleati imposero all’Italia venti anni prima a Versailles, che avrebbero riscattato l’offesa subita della vittoria mutilata.

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Il dieci giugno era un giorno afoso, un lunedì, e già dal primo pomeriggio la folla oceanica aveva cominciato a popolare Piazza Venezia. I romani, col naso all’insù e lo sguardo diretto verso il balcone di Mussolini, boccheggiavano come tanti pesci. Alle 16:30 il ministro degli Esteri, il conte Galeazzo Ciano, convocò nel suo ufficio l’ambasciatore francese  François-Poncet per consegnargli la dichiarazione di guerra firmata dal re: “Probabilmente avete già compreso le ragioni della mia chiamata”, gli chiese Ciano. “Benché io sia poco intelligente, questa volta ho capito”, rispose l’ambasciatore emozionato e abbattuto. Poi, mentre portava il cappello alla testa, esclamò: “È un colpo di pugnale ad un uomo in terra”. E aggiunse: “I tedeschi sono padroni duri. Ve ne accorgerete anche voi”. Ciano non rispose e Poncet, prima di lasciare la stanza e indicando l’uniforme militare d’aviatore del conte, concluse: “Non vi fate ammazzare”. Qualche minuto più tardi fu la volta dell’ambasciatore inglese, Sir Percy Loraine, il quale, da vero inglese, non si lasciò coinvolgere in alcun gesto emotivo. Arrivarono, intanto, le ore 18:00 e finalmente Mussolini si presentava alla folla, indossando l’uniforme nera da primo caporale d’onore della milizia fascista. Annoterà Ciano nel suo diario: “Mussolini parla dal balcone di Palazzo Venezia. La notizia della guerra non sorprende nessuno e non desta eccessivi entusiasmi. Io sono triste: molto triste. L’avventura comincia. Che Dio assista l’Italia”. Terminata la baldoria nella quale nessuno aveva avuto voglia di brindare, la gente, mentre rincasava col capo chino, borbottava distratta: “Ma quello è matto”.

Stefano Poma

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