La storia dei primi italiani in Giappone

Centocinquantaquattro anni fa, il due luglio 1866, il primo bastimento italiano a navigare i mari del Sol Levante arrivò in Giappone, sotto l’alta vetta del Fuji-Yama, “il Monte della felicità”. 

I rapporti tra Italia e Giappone sono secolari. È grazie a un rapporto del viaggiatore italiano Marco Polo, infatti, che l’Europa è venuta a conoscenza per la prima volta dell’esistenza dell’arcipelago del Sol Levante. Più tardi, nel 1542, attraccò in Giappone la prima nave europea: una corvetta portoghese di gesuiti, alcuni dei quali italiani. La prima missione diplomatica giapponese in Europa risale invece al 1582. I nobili giapponesi fecero un tour dell’Europa, passando come tappa obbligata a Roma e nel 1585 il Papa assegnò alla delegazione giapponese la chiesa di Santa Maria dell’Orto, ancora oggi in uso dalla comunità cattolica giapponese. Ma ben pochi sanno che è soltanto nel 1865 che l’Italia strinse legami diplomatici ufficiali con il Giappone. Fu in quell’anno che il “neonato” Governo italiano, per ovviare all’epidemia che aveva decimati i bachi da seta, decise di inviare una nave da guerra in viaggio verso l’Oriente con a bordo un rappresentante plenipotenziario dello Stato italiano al fine di negoziare trattati commerciali con la Cina e il Giappone, entrambi produttori del prezioso tessuto. La nave che fu scelta per l’impresa fu la modernissima pirocorvetta Magenta, un bastimento di legno dotato di tre alberi a vela quadra e una macchina a vapore, che fu affidata al comando dell’ammiraglio Vittorio Arminjon, nominato anche capo della missione diplomatica.

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Fu il 4 luglio 1866 che il bastimento italiano arrivò finalmente in vista del Fuji-Yama, “il Monte della Felicità”, la più alta vetta del Sol Levante. A quell’epoca il Giappone era ancora un paese feudale ed estremamente chiuso, infatti le cannonate sparate qualche anno prima dal commodoro americano Parry per ottenere l’apertura al commercio esterno di qualche porto nipponico non avevano ancora sortito i loro effetti. Mancavano ancora due anni all’inizio del periodo Meiji, che vedrà l’imperatore Mutsuhito cambiare definitivamente il volto politico dell’arcipelago. Gli italiani della Magenta conobbero infatti un Giappone ancora pienamente medioevale, dominato dai potenti shogun e dai fieri signori feudali daimyō. La nave italiana toccò terra non lontano da Yokohama, ciò che impressionò l’equipaggio della Magenta  fu la cordialità, l’industriosità e l’abilità artistica degli abitanti del luogo.

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Riportiamo di seguito un brano di Enrico Hillyer Giglioli,  zoologo e antropologo dell’equipaggio della Magenta: “Ad una svolta ci trovammo al cospetto del corteo di un daimyō di qualche importanza, a giudicare dalla lunghezza del suo seguito; era evidente che ciò contrariava non poco i yakunin (attendenti) della nostra scorta; avrebbero certamente voluto tornare indietro, ma evidentemente chi si avanzava era uno degli amici dello Sciogun, giacché al comparire di alcune insegne le facce dei nostri fidi si rasserenarono. I yakuzin avevano formato circolo intorno a noi, scesero tutti da cavallo dopo averci pregato per mezzo di Kuabala a mantenerci sulla sinistra, ove eravamo, ed a non muovere un passo. Sono entrato in particolari perché un tale incontro nel 1866 al Giappone, ma più specialmente a Yedo, poteva essere tragico per gli Europei; il disgraziato Lennox Richardson era stato ucciso appunto in una simile occasione. Alla testa del corteggio correvano due battistrada a capo scoperto, i quali gridavano “Scìtaniro!” (fate largo, inginocchiatevi!); poi due samurai, i quali portavano alti pali terminati con un grosso pennacchio di piume nere, segno della presenza del grande uomo: con loro erano altri tre che portavano ritte, lunghe lance trilobate col ferro coperto da un astuccio tinto in rosso; seguiva un forte plotone di arcieri e moschettieri, tutti però, seguendo un uso allora prevalente, colle armi chiuse in astucci speciali; ed un centinaio di samurai, colle impugnature delle sciabole ben sporgenti, ed il cappello laccato e placcato in testa.

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Dietro ad essi veniva il norimon (lettiga) del daimyō, portato da 12 uomini a testa e gambe scoperte; mentre passava di fronte a noi, il daimyō sollevò una delle persiane della sua portantina lo vidi per un momento per dare un’occhiata e ci guardò con occhio poco benevolo. Ai lati del norimon camminavano molti altri samurai, e dietro di esso vari paggi che portavano la sciabola di parata, l’elmo, la corazza ed altri attrezzi guerreschi del loro padrone; poi un attendente con un enorme ombrello chiuso, e due samurai portanti ciascuno un palo con pennacchio terminale di piume bianche; dietro a loro tre betsùto (palafrenieri) conducevano per la briglia il cavallo del daimyō che era splendidamente bardato. Lo seguivano un centinaio di samurai a cavallo; quindi altro plotone di soldati con lancia, arco e sciabola. Chiudevano la marcia numerosi facchini portanti ciascuno, equilibrate all‘estremità di una pertica di bambù, due bauli o casse quadrangolari, laccate in nero; erano gli effetti ed il vestiario del nobile. L’intero corteo impiegò un buon quarto d’ora per passare; non era certo di meno di 600 persone. Quando furono tutti passati pensai al caso fortunato che nella seconda metà del XIX secolo mi aveva concesso di vivere alcuni giorni, in pieno Medio-Evo.”

Antonio Manca

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