Le ruberie al parlamento di Firenze capitale

Centosessant’anni fa, il 17 marzo 1861, veniva proclamata l’unità d’Italia. L’architetto messinese Carlo Falconieri, incaricato tempo prima di adattare il palazzo Vecchio di Firenze a nuovo sede del parlamento italiano, fu condannato per furto ai danni dello Stato e condannato a tre anni di reclusione. 

Il 17 marzo 1861 la legge n. 4671, promulgata dal re del Regno di Sardegna Vittorio Emanuele II, proclamava ufficialmente la nascita del Regno d’Italia: “Il Senato e la Camera dei Deputati hanno approvato; noi abbiamo sanzionato e promulghiamo quanto segue: Articolo unico: Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi Successori il titolo di Re d’Italia. Ordiniamo che la presente, munita del Sigillo dello Stato, sia inserita nella raccolta degli atti del Governo, mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato. Da Torino addì 17 marzo 1861”. L’Italia era unita e il re borbonico Francesco II riparò a Roma, che verrà annessa al Regno dei Savoia nove anni più tardi, dopo che l’esercito la conquistò passando dallo squarcio che i cannoni fecero nel secolare muro di Porta Pia.

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Come impose Napoleone III alla convenzione di settembre del 1864, il governo italiano, presieduto dal bolognese Marco Minghetti, trasferì la capitale del Regno d’Italia da Torino a Firenze. Fu quindi necessario preparare un’aula sulle rive dell’Arno, un edificio solenne che avrebbe dovuto ospitare deputati e senatori. L’incarico fu affidato dal ministro dei lavori pubblici Stefano Jacini all’architetto messinese Carlo Falconieri. Dotato di spirito ribelle e avventuriero, nutriva un forte desiderio: quello di togliere Roma al papa. Il compito che gli venne affidato fu di grande prestigio: l’adattamento di palazzo Vecchio e del teatro Medici agli Uffizi a sede delle Assemblee legislative. In una lettera, l’architetto scrisse che “nei miei lavori sono mosso dal supposto che Firenze non sia altro che una tappa per condurci a Roma, al sospirato compimento delle nazionali aspirazioni”.

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Tuttavia, quell’incarico tanto prestigioso affidato a quell’uomo del Sud suscitò invidie e gelosie nell’ambiente fiorentino. Fu tacciato di falsità strumentale e, mentre l’aula parlamentare veniva ultimata, coi suoi collaboratori Fontani, Gori e Bartolini venne accusato di furto ai danni dello Stato. Nelle strade di Firenze si diceva che rubavano nelle provviste, che rubavano nei conti, che rubavano nelle liste, che rubavano per i muratori, per i falegnami, per le tappezzerie. Tutti dicevano che rubavano in tutto e dappertutto. Tutti dicevano che i quattro mascalzoni presentavano conti e note, dove scrivevano i nomi dei canonici del Duomo di Firenze fingendo che fossero operai da pagarsi, e intascavano essi stessi quei pagamenti. I quattro vennero arrestati, processati e condannati. Il tribunale di Firenze, con sentenza dei 21 di agosto 1867, condannava Carlo Falconieri alla pena del carcere per tre anni e mezzo, Fontana e Gori a tre anni e Bartolini a sette mesi.

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Dopo un lungo processo d’Appello, la Corte rigettò la sentenza, scagionando Falconieri da ogni accusa. Tornò nella sua città, Messina, dove più di ottocento messinesi tra intellettuali, politici e cittadini comuni in segno di stima e di sostegno sottoscrissero un attestato di solidarietà all’architetto, il quale ricambiò l’affetto nella dedica della Vita di Vincenzo Camuccini, sua ultima opera pubblicata nel 1875: “Alla diletta patria Messina che sdegnosa guardò il lutto del suo vecchio esule artista oggi su di lui lieta riversa un tesoro di affetto pel recuperato onore questo umile lavoro nella piena del cuore commosso offre riverente e consacra”. Si ritirò a vita privata e morì a Roma, nel 1891.

Vittorio Scacco

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