La manifestante uccisa dal “fuoco amico”: storia di Giorgiana Masi

Quarantatré anni fa, il 12 maggio 1977, a Roma, scoppiarono dei violenti scontri tra i manifestanti del Partito Radicale e della sinistra extraparlamentare e le forze dell’ordine. Alle ore 19,55 un proiettile calibro 22 colpì la diciottenne Giorgiana Masi all’addome; il nome del colpevole è tutt’oggi sconosciuto.

Erano passati esattamente tre anni dalla vittoria del referendum sul divorzio. Per il 12 maggio 1977 i Radicali avevano promosso una manifestazione non autorizzata in Piazza Navona a Roma per celebrare tale anniversario e per raccogliere le firme per altre proposte di referendum. In quel periodo, il ministro dell’Interno Cossiga, aveva posto il divieto di indire manifestazioni politiche a Roma successivamente all’omicidio dell’allievo sottufficiale Settimio Passamonti, avvenuta durante una sparatoria con alcuni militanti di Autonomia Operaia il 21 aprile precedente. Assieme ai Radicali, in piazza, c’erano gli extraparlamentari (specialmente Lotta Continua e Autonomia Operaia), lavoratori, studenti e anche le femministe. Tra quest’ultime c’era pure Giorgiana Masi, studentessa diciottenne del liceo scientifico Pasteur. Quella fu la sua ultima manifestazione perché, durante quella terribile giornata, fu raggiunta alla schiena da un proiettile calibro 22 blindato che spense la sua giovane vita.

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La cronaca della giornata di piazza è simile a molte altre giornate di quel periodo: i manifestanti che infrangono il divieto; la piazza che viene occupata senza autorizzazione; l’area militarizzata con migliaia di agenti pronti a intervenire; cariche della polizia tese a disperdere il concentramento; la risposta dei militanti alla violenza delle forze dell’ordine; la creazione di barricate; lo sfondamento di quest’ultime e l’arresto di qualche ragazzo. Solo che quel maledetto 12 maggio qualcosa andò storto: verso le ore 20 una giovane ragazza cade a terra mentre corre in direzione Trastevere. I compagni la soccorrono immediatamente pensando sia inciampata, ma i suoi occhi sono sbarrati, impietriti; fermano una macchina per portarla immediatamente all’ospedale. Purtroppo, però, Giorgiana ci arriverà già senza vita, freddata dal colpo sparato da non si sa chi. Ed è proprio questo il grande enigma che ancora oggi resta insoluto. Chi sparò, uccidendo Giorgiana Masi in quel maggio 1977? Chi diede l’ordine di aprire il fuoco sulla folla? Negli anni, come spesso è stato, non si è giunti a una verità provata con troppe testimonianze discordanti che hanno portato alla elaborazione di due teorie impossibili da sovrapporre. Da un lato c’è la verità di chi era in piazza che accusa le forze dell’ordine, dall’altro lato della barricata, invece, si accusano gli stessi manifestanti dando la colpa al “fuoco amico”.

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Di tale avviso fu, ovviamente, il ministro Cossiga che difese a spada tratta l’operato della celere per il “grande senso di prudenza e moderazione”, aggiungendo poi che “con azione improvvisa, circa 300 dimostranti” avevano attaccato le forze di polizia “con il lancio di bottiglie molotov e sassi”, per cui gli agenti si erano dovuti difendere. Le testimonianze raccolte in piazza, invece, parlarono di agenti in borghese infiltrati tra gli stessi giovani con il compito di creare caos e violenze, accusandoli addirittura di aver sparato ripetuti colpi d’arma da fuoco (tra cui quello che raggiunge la Masi). “Radio Città Futura ha detto che è stata colpita al ventre – riporta una testimonianza raccolta nel libro dei Radicali, “Cronaca di una Strage” – : la cosa mi ha lasciato molto perplesso. I colpi venivano solo dalla parte dove c’era la polizia. L’autopsia, che ha detto che Giorgiana è stata colpita alla schiena, me lo ha riconfermato. Assieme alla polizia c’erano molti in borghese. Quelli in divisa erano sulle autoblindo, con le finestre aperte. Alla metà del ponte ci sono due rientranze in muratura. Lì si sono appostati quelli in borghese ed hanno sparato”.

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Nonostante le inchieste giudiziarie non abbiano portato a nulla, ci sono diverse foto scattate da Tano D’Amico che testimoniano l’accaduto. In una di esse, diventata ormai celebre, si vede il poliziotto Giovanni Santone allontanarsi frettolosamente pistola in pugno, borsa Tolfa (di moda tra gli Autonomi) a tracolla, jeans e maglia bianca. Una foto che fece subito scalpore e che, come sostenne allora D’Amico, avrebbe dovuto portare alle dimissioni dello stesso Cossiga. ma invece “sono io che sono stato dimesso da tutto, perché avevo rotto le scatole”. Dopo l’archiviazione avvenuta nel 1979, nel 2017 il caso è stato riaperto grazie al libro di Concetto Vecchio (Giorgiana Masi. Indagine su un mistero italiano, Feltrinelli, 2017) che ripercorre la vicenda basandosi sulle carte dell’avvocato della famiglia Masi, Luca Boneschi, il quale ricevette pure una denuncia per diffamazione dopo aver criticato pubblicamente il giudice istruttore e che ammette che “non si saprà mai chi ha ucciso Giorgiana Masi: gli “sciacalli”; o se a sparare siano state le forze dell’ordine con una pistola di ordinanza. Ognuno tragga la morale che preferisce: e se qualche studioso volesse ripercorrere il processo, chi scrive ha tenuto le carte per vent’anni e le conserverà ancora, finché non sbiadiranno del tutto”.

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Purtroppo in pochi sanno la verità sui fatti di quel giorno e tra questi c’è Cossiga, che il 25 gennaio 2007 rilasciò un’interessante intervista ad Aldo Cazzullo:

Il 12 maggio fu uccisa Giorgiana Masi.
“Avevo supplicato in ginocchio Pannella di rinunciare alla manifestazione in piazza Navona. Gli ricordai che io stesso avevo mandato la polizia a impedire un comizio democristiano a Genova. Gli dissi che i radicali non erano in grado di difendere la piazza e chiunque si sarebbe potuto infiltrare. Tutto inutile”.

Chi fu a sparare?
“La verità la sapevamo in quattro: il procuratore di Roma, il capo della mobile, un maggiore dei carabinieri e io. Ora siamo in cinque: l’ho detta a un deputato di Rifondazione che continuava a rompermi le scatole. Non la dirò in pubblico per non aggiungere dolore a dolore”.

Fuoco amico?
“Questo lo dice lei. Il capo della mobile mi confidò di aver messo in frigo una bottiglia di champagne, da bere quando sarebbe emersa la verità, pensando a tutto quanto ci hanno detto”.

Andrea Tagliaferri

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