Il giovane Marcello, Picciafoco e la guerra d’Africa

Ottantaquattro anni fa, il 5 maggio 1936, il maresciallo Badoglio telegrafava a Benito Mussolini: “Oggi 5 maggio alle ore 16, alla testa delle truppe vittoriose, sono entrato in Addis Abeba”. L’incidente di Ual-Ual del dicembre del ’34, dove truppe etiopiche attaccarono un presidio coloniale italiano, fu il pretesto col quale il regime fascista preparò l’aggressione all’Etiopia e la conquista dell’impero. Molti italiani accolsero l’evento con grande entusiasmo, con l’eccitazione di chi si sente protagonista e valoroso dopo una facile vittoria.

Una sera, dopo il tramonto, Marcello vagava solitario per le buie strade deserte, guidato soltanto dalla noia e dalla fioca luce arancione dei vecchi lampioni. Una leggera pioggia gli bagnava la fronte, che asciugava, di tanto in tanto, portando sul viso le logore maniche della verde giacca rappezzata di grigio. Una grande luna paglierina illuminava le pozzanghere, che Marcello evitava con dei piccoli e goffi saltelli in avanti. All’improvviso, il passaggio di un’elegante carrozza ruppe il silenzio, scorrendo rumorosamente sull’acciottolato e lanciando dietro di sé dei violenti schizzi di fango. Nel buio, in lontananza, due giovani, barcollando, uscivano da una piccola porticina di legno che portava ad un seminterrato. Dalla finestrella del locale, che risultava circa un metro sopra il livello della strada, usciva del fitto fumo bianco, accompagnato da un nauseabondo tanfo di alcol e da un incessante vociare acceso. In alto, un’insegna in legno recava la scritta “Osteria ardita”. Era una bettola che pullulava dei peggiori residui del fascismo più bieco, rissaiolo e intollerante; di quel primo squadrismo che si illuse di compiere la grande rivoluzione fascista ma che conquistò esclusivamente una reazione al socialismo bolscevico. Marcello, col palmo della mano, colpì il batacchio a forma di teschio, incastonato nella vecchia porticina nera. Si presentò un uomo piccolo e storto, dallo sguardo stupido, che zoppicando scese a fatica una scaletta di ferro, sfasciata e senza ringhiera, per poi sparire in mezzo alla sala, brulicante di uomini vestiti di nero che proseguivano nel loro sfaccendare, senza preoccuparsi troppo del nuovo ospite. Il forte odore di vino si mischiava con quello nauseante dei muri affumicati, privi di intonaco, neri come un caminetto spento. Il pavimento, in terra battuta, sporcava le scarpe di polvere. In mezzo alla sala piena di fumo, una donna grassoccia col seno enorme si faceva strada in mezzo agli ospiti, reggendo in alto un vassoio di ferro con sopra due grandi brocche di terracotta. In un angolo, su una sedia, un uomo sonnecchiava con la testa ripiegata all’indietro e una sigaretta spenta infilata in bocca. In fondo alla sala, sotto una grande foto di Mussolini a cavallo, un grosso omone di quasi due metri accendeva la radio. Il gigante, sotto una grande testa pelata e una folta barba bianca che gli arrivava al petto, esibiva compiaciuto la sua fiera camicia nera con le decorazioni che conquistò nella Grande Guerra e dopo la marcia su Roma. Due piccoli ma vivaci occhi celesti gli illuminavano il volto, sfregiato dal labbro superiore allo zigomo destro da un pugnale che teneva tra i denti mentre, nel millenovecentodiciotto, attraversava a nuoto il Piave per raggiungere le trincee nemiche degli austriaci. Era conosciuto come Picciafoco. Fu lui a portare il fascismo in città, entusiasta sostenitore del programma che fu compilato in piazza San Sepolcro a Milano nel marzo del diciannove. Anarchico, repubblicano e anticlericale, passava le giornate facendo il lavoro sporco della polizia fascista. Ogni mattina, da dodici anni a quella parte, al risveglio, sognava che quella sarebbe stata la giornata della vera rivoluzione delle camicie nere, della cacciata dall’Italia del Re, dei preti e dei borghesi.

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Nel rumoreggiare della vecchia osteria, all’improvviso Picciafoco, dopo aver sintonizzato la radio, lanciò un grido feroce, spietato, che portò al silenzio tutte quelle bocche allegre macchiate di vino. Tutti tacquero e solo la voce dello speaker radiofonico riecheggiava all’interno della sala: “Ieri, cinque dicembre 1934, dodicesimo anno dell’era fascista, al mattino, un nostro presidio ai pozzi etiopici di Ual-Ual, è stato barbaramente attaccato da armati abissini. I nostri corrispondenti, giunti sul posto all’alba di questa mattina, hanno trovato sul terreno i corpi senza vita di trenta uomini e un centinaio di feriti sul campo italiano e oltre cento morti in quello abissino”. Picciafoco, con un energico scatto, sfilò il manganello dalla cintura e lo sollevò al cielo. Mentre lo agitava, gridava con entusiasmo irrefrenabile verso i compagni balzati in piedi: “Era ora camerati, era ora! Andiamo in Africa!”. Tutti ordinarono da bere e anche Marcello, che fino ad allora era rimasto immobile, in piedi sopra l’ultimo gradino della scaletta di ferro, si unì all’entusiasmo generale che travolgeva quegli uomini. L’uomo nell’angolo, svegliato dal frastuono, infiammò un fiammifero e accese la sigaretta, dando due forti tirate. La donna grassoccia, impaurita per tutto quell’agitarsi, si muoveva a fatica in mezzo alla grande baldoria. Per salvare le brocche piene di vino da quelle braccia che si agitavano e a quelle teste che ondeggiavano al ritmo di canti militari, si allungava verso il soffitto, elevandosi in punta di piedi, facendo oscillare il suo grosso seno enorme come un’altalena.

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Marcello prese posto vicino a due uomini piccoli e scuri. Il primo, un misero disoccupato, indossava dei vecchi occhiali spessi, appoggiati a un orribile naso aquilino, i quali puliva di tanto in tanto con un lungo fazzoletto che portava attorno al collo; il secondo, visibilmente ubriaco, famoso per spendere nei bordelli i pochi soldi che riusciva a racimolare coi sussidi statali, beveva in modo meccanico, ossessivo, come oppresso da un terribile tic, il quale ad ogni sorso gli faceva roteare i grandi occhi da camaleonte. Nei loro discorsi prendevano vita i contorni di un’Africa selvaggia, disegnati da una mano che ardeva di passione guerriera e che riportava alla mente le orazioni di Pascoli, la guerra di Libia e la sciagurata disfatta di Adua. Negli occhi di tutti brillava la persuasione che il fascismo stava restituendo all’Italia i fasti gloriosi della Roma antica, impresa nella quale i vecchi governi liberali avevano dolorosamente fallito. E ora, dopo tredici anni di scuola battagliera e bellicosa, il Duce regalava all’Italia un pezzo d’Africa, il tanto sognato posto al sole. “Lì si che ci sarà lavoro”, disse il disoccupato. “E chissà che donne, che grandi seni e che gambe lunghe troveremo tra le negre” replicò l’ubriaco mentre portava il bicchiere alla bocca. Poi, senza voltarsi, separò gli occhi da camaleonte: uno guardava l’amico, intento ad asciugarsi le labbra sporche di vino; l’altro fissava Marcello, alla ricerca di una solidarietà e di una certezza comune che la guerra in Africa avrebbe risolto i problemi interni e accontentato le voglie e i vizi dei valorosi e intrepidi conquistatori. Il più anziano in sala, l’unico che poteva ricordare la lontana disfatta del 1896, saltò come un gambero sopra una sedia e organizzò un meticoloso comizio; e le parole tabacco, caffè, Negus, Makallè, Amba Alagi, rapivano quegli spettatori agitati che per la prima volta sentivano di far parte della Storia, di poter fingere di possedere un grande ideale che nel loro profondo era in realtà sconosciuto. Picciafoco, nel suo entusiasmo, era il più sincero di tutti e Marcello non poteva fare a meno di ispezionarlo, di ammirare quel grosso omone che aveva speso gli ultimi anni della propria vita a servire il Duce e il fascismo. Picciafoco notò gli occhi di Marcello che lo seguivano e si avvicinò al tavolo che occupava insieme al disoccupato e all’ubriaco, muovendosi come una grande marionetta guidata da dei lunghi fili invisibili. “Camerati erano tre anni che aspettavamo questo momento, finalmente è giunta l’ora”, disse Picciafoco stando in piedi, agitando la mano destra e tenendo l’altra ferma, col pugno chiuso stretto sul fianco: “Tutti abbiamo il dovere di partire perché stare a casa è da vigliacchi e noi fascisti siamo ostili alla vigliaccheria. Brindiamo al Duce”. Dopo aver bevuto, l’ubriaco si accasciò sul tavolo, stremato dal vino, vittima di un sonno violento e profondo. I due amici abbandonarono il tavolo con le piccole e tremanti gambette del disoccupato costrette a trasportare entrambi. “Senti Marcello, non ti fidare di questi personaggi”, esclamò Picciafoco con aria distratta, “è gente che non vale più di zero, poveri miserabili che pensano solo a far fortuna, a cercare una strada da battere purché questa riempia loro tasche e stomaco. Sono i classici italiani che noi fascisti detestiamo, ma di cui comunque ci dobbiamo servire. Noi antemarcia siamo sempre stati da una sola parte, quella del Duce, e da quella parte moriremo. Questi invece, appena il fascismo mostrerà le prime rughe, salteranno sul nuovo carro dei vincitori e sputeranno sul proprio passato in cui, grazie al fascismo, sono stati benissimo”. Intanto l’orologio arrivò a segnare quasi la mezzanotte e la sala cominciò a svuotarsi. “Ora dobbiamo andare”, disse Picciafoco. “Ma prima di andarcene, vorrei che rispondessi ad una domanda che voleva farti poco fa, appena ti ho visto entrare in questa sala. Tu sei fascista?”.

Stefano Poma

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