Il processo di Gerusalemme

Cinquantotto anni fa, il 31 maggio 1962, l’ex gerarca nazista Adolf Eichmann, figura di primo piano nella gigantesca macchina messa in moto per la “Soluzione Finale”, venne impiccato pochi minuti prima della mezzanotte in una prigione a Ramla, in Israele.

Israele, 15 dicembre 1961. In un’aula immersa in un silenzio tombale, il giudice Moshe Landau si apprestava a leggere la sentenza del processo nei confronti dell’ultimo gerarca del III Reich: Adolf Eichmann. Descritto come una “bestia”, un “nemico del genere umano”, uno “specialista” nel suo genere, Eichmann doveva rispondere a delle accuse pesantissime: responsabilità diretta nel genocidio del popolo ebraico e per i crimini contro l’umanità perpetrati durante la Seconda Guerra Mondiale. Dopo dieci mesi di processo, l’imputato, all’interno di una cabina antiproiettile, attendeva in piedi ed in silenzio l’esito del processo.  Stempiato, con un naso aquilino, due fessure al posto degli occhi e, ad ornare il viso, un paio di occhiali.  Imperturbabile e attento a tutte le deposizioni dei testimoni che via via si alternavano nel tribunale, egli prendeva metodicamente appunti che rileggeva ed integrava con ulteriori note. Balzava in piedi, quasi sull’attenti, ogni qualvolta il suo avvocato difensore, Servatius o il Procuratore Generale Hausner lo interrogavano. Nell’aspetto innocuo, dimesso, del personaggio, si nascondeva una delle figure più controverse ed inquietanti del Novecento.

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Nato nel 1906 a Solingen, nella Renania, Adolf Eichmann nel 1933 aderì alle SS (Schutzstaffeln), il corpo paramilitare del partito nazista. La carriera di Eichmann decollò verso la fine degli anni ’30, quando, in seguito all’annessione dell’Austria alla Germania, l’Anchluss, egli divenne il braccio destro di Heydrich, con il compito di sovrintendere l’immigrazione forzata degli ebrei presenti nell’allora Cecoslovacchia. La conferenza di Wannsee  del 1942 segnò un punto di non ritorno: essa riunì i più alti vertici del partito nazionalsocialista con il compito di dare attuazione nel miglior modo possibile alla “soluzione finale del popolo ebraico”. Eichmann, in qualità di capo del dipartimento B4 dedicato agli ebrei, fu tra i presenti ed ebbe il ruolo di Segretario della Conferenza.  Durante gli anni tra il 1942 e il 1945 venne designato per coordinare i carichi di deportati che confluirono verso i campi di concentramento e di sterminio, stabilendo le modalità ed i tempi delle deportazioni.  Al termine della Seconda Guerra Mondiale, Eichmann divenne un ricercato, ma riuscì ad evitare la cattura, assumendo il nome fittizio di Ricardo Klement; fuggì con la propria famiglia in Argentina, dove rimase latitante per una decina anni.  A causa di alcune azioni maldestre, sue e della sua famiglia, la vera identità di Eichmann venne scoperta. Trascorse poco tempo e l’SS-Obersturmbannführer venne individuato e poi prelevato dal Mossad, il servizio segreto israeliano, nel 1960, e condotto a Gerusalemme dove avrebbe dovuto rispondere in veste di imputato all’accusa di crimini contro l’umanità.

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Il 10 Febbraio 1961 cominciò il processo, durante il quale vennero chiamati a deporre i superstiti dei Campi di concentramento, i quali indicarono l’ex gerarca come una figura di primo piano nella gigantesca macchina messa in moto per la “Soluzione Finale”. Eichmann non negò la sua partecipazione all’Olocausto, ma ridimensionò il suo ruolo, dichiarandosi un ingranaggio di un sistema più grande di lui. Giustificò la sua condotta, definendosi “uno strumento in mano a forze superiori”. E quali erano queste forze superiori che vincolavano l’agire di Eichmann? Il Führer,  agli ordini dei quali obbediva in buona fede. Fu la filosofa e sociologa tedesca, Hannah Arendt a porre l’accento sulla questione e descrisse con toni cupi, l’atteggiamento risoluto di Eichmann nel negare la responsabilità nelle azioni che portarono allo sterminio di 6 milioni di Ebrei.  Eichmann lesse una dichiarazione con la quale tentò di mitigare gli esiti della sentenza: «Vorrei di mia spontanea volontà domandare perdono al popolo ebraico, e dichiarare che inorridisco al pensiero di ciò che è stato fatto agli Ebrei».  L’ex gerarca venne dichiarato colpevole. Venne riconosciuto che l’intento dell’azione di Eichmann fu quello di eliminare metodicamente il popolo ebraico. A convincere la corte della colpevolezza dell’imputato, vi fu il fatto che l’ex gerarca avesse continuato a sovrintendere l’invio dei deportati nei campi di concentramento, anche durante la fase del collasso del Terzo Reich. Eichmann venne condannato a morte per impiccagione. Vennero presentate delle richieste di grazia sia dalla famiglia dell’ex gerarca e dall’avvocato difensore, Servatius. Entrambe vennero rigettate da Yitzhak Ben-Zvi, allora Presidente della Repubblica d’Israele.

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L’ultimo atto di questo drammatico capitolo della storia umana avvenne nella prigione di Ramla, il 31 maggio del 1962. Eichmann rifiutò l’ultimo pasto, optando invece per una bottiglia di Carmel, un vino rosso prodotto in Israele. Ne bevette la metà.  L’ex gerarca Venne impiccato poco prima della mezzanotte. Furono due le persone incaricate dell’esecuzione, tirando contemporaneamente le leve della corda. Non si doveva sapere con certezza chi avesse eseguito la sentenza.  Il corpo di Adolf Eichmann venne cremato e le sue ceneri vennero gettate nel Mediterraneo, al di fuori delle acque territoriali israeliane. A distanza di cinquantacinque anni dal processo, traspare un’idea inquietante di un uomo come una vera e propria incarnazione del male. Non si trattò tuttavia di un male selvaggio, ma di un male razionale, metodico. In un concetto agostiniano il male che venne rappresentato in quello scorcio del XX Secolo, altro non fu che vuoto, inteso come un’assenza dell’etica umana. Un volontario distanziamento dalle proprie responsabilità morali di uomo designò la vita dell’ex gerarca ed è riassumibile nelle parole che egli pronunciò in una delle fasi del processo: «Ricevevo gli ordini. Che la gente venisse uccisa o no, gli ordini dovevano essere eseguiti».

Stefano Carta

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