Il fantasma di Predappio

Settantacinque anni fa, il 28 aprile 1945, Benito Mussolini e la sua amante Claretta Petacci vennero fucilati alle ore 16.10, a Giulino di Mezzegra, dal colonnello partigiano Valerio. La morte dell’ormai ex duce portò alla fine del fascismo ma non a quella dei fascisti nostalgici. 

In questi giorni un fantasma si aggira per l’Italia. A Predappio, luogo dove ha stabilito la sua eterna dimora, il fantasma viene puntualmente “risvegliato” dalle polemiche tra i suoi simpatizzanti e tra i suoi detrattori. Anno dopo anno questo sipario si ripete, ma lo fa in maniera sempre più opaca per la progressiva uscita di scena di coloro che furono presenti “quando c’era Lui”. Settantacinque anni dopo Mussolini continua a rappresentare un punto di non ritorno della nostra storia. Chi fu realmente questo personaggio? Criticato o osannato, odiato ed amato, il duce sembra essere nato per suscitare sentimenti contrastanti nel popolo italiano. Per alcuni fu “l’uomo della Provvidenza”, un grande politico, addirittura uno statista, mentre per altri fu un criminale, un dittatore, un assassino. L’uomo che affacciandosi da Palazzo Venezia appariva con la testa rasata, gli occhi sgranati, una mimica fatta di mosse accuratamente studiate ed un’oratoria capace di ipnotizzare il suo uditorio rimane ancora oggi impresso nella memoria degli Italiani, i quali lo amarono e lo odiarono al contempo.

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L’ex maestro di scuola, il socialista, il neutralista, l’interventista, lo squadrista ed ora l’uomo di governo, il razzista ed, infine, il cadavere, appeso a testa in giù e poi oltraggiato dalla folla inferocita, rappresenta l’essenza di tutte le contraddizioni del nostro Paese. Disse di lui Malaparte: «Non si può fare il ritratto di Mussolini senza fare il ritratto del popolo italiano. Le sua qualità e i suoi difetti non gli sono propri: sono le qualità e i difetti di tutti gli italiani. Il dir male di Mussolini è legittimo: ma è un dir male del popolo italiano». Mussolini era abile a destreggiarsi nel complicato panorama politico nostrano. Capiva prima degli altri la direzione del vento e comprendeva e assecondava le pulsioni più nascoste degli italiani. Cambiò più volte pareri e idee per pura convenienza politica. Lo fece quando da pacifista divenne interventista, lo fece quando dalle dichiarazioni anticlericali dei manifesto di Sansepolcro, passò al Concordato con la Chiesa. Lo fece, infine, quando dall’uomo dell’olio di ricino divenne il salvatore della pace nella Conferenza di Monaco. Per Mussolini, degno principe machiavelliano, tutti i mezzi erano leciti per ottenere i propri scopi: l’intimidazione, il confino, la carcerazione e, nei casi più estremi, l’eliminazione fisica degli avversari. Erano questi gli strumenti che utilizzava contro i reticenti alla sua politica. Ne fecero le spese Giacomo Matteotti, Gobetti, Amendola, Gramsci ed fratelli Rosselli. E con gli Italiani? Con esclusione di uomini di grande levatura morale come i Pertini o gli Sturzo, il popolo si prostrò ai piedi del duce, in alcuni casi con ingenua venerazione ed in altri casi – forse la maggior parte – con la speranza di ottenere benefici e quant’altro.

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Mussolini, che conosceva bene l’animo degli Italiani, a modo loro anarchici in quanto desiderosi di prender il posto dei padroni, ricompensò la loro ossequiosità, elargendo a destra e a manca delle piccole fette di potere: ne nacque così una complicata burocrazia fatta di capi e i capetti di partito, della milizia, del dopolavoro, del GUF, dove ciascuno dava ed eseguiva ordini. Si trattava di un contentino, ma funzionò. A questo si aggiunsero gli ambiziosi progetti come le bonifiche dell’Agro pontino, la costruzione di città come Littoria, Carbonia, la costruzione di Cinecittà, le “avventure” africane in Etiopia, i concordati con la Chiesa, costituirono una enorme cassa di risonanza propagandistica in grado garantire al Regime un ampio consenso.

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A detta di Montanelli, persino Vittorio Emanuele III aveva un debole per Mussolini. Per altri il re riteneva il Primo ministro come uno strumento chirurgico atto ad estirpare il pericolo del socialismo. Il duce da parte sua non pareva particolarmente impressionato nei confronti del sovrano, e lo dimostrò spesso e volentieri nei modi, talvolta conditi da un linguaggio schietto e deliberatamente provocatorio.

Re: «Caro Mussolini, lo sa che lei pian piano si è appropriato di quel tantino di potere che era rimasto alla monarchia?»

M: «Maestà il regime vi ha dato un impero.»

Re: «Sulla carta.»

M: «No, anche sul cartoncino dei biglietti da visita. Potete benissimo scriverci Vittorio Emanuele III, Re d’Italia ed Imperatore d’Etiopia, per grazia di Dio e per volontà della Nazione.»

Re: (ironico) «Della Nazione addirittura!!!»

M: «Addirittura. La Nazione sono io!»

Non furono rare anche le esternazioni che, in presenza dei suoi più stretti collaboratori, Mussolini faceva sulla statura minuta del re. Singolare fu quella che il Duce fece con Ciano: «Tutte le volte che incontro Sua Maestà, nel vederlo così piccoletto, come un bambino, mi viene voglia di fargli una carezza».

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Il 10 giugno del 1940 ed il Duce, affacciato da palazzo Venezia, annunciò con quella gestualità che gli era propria, la decisione storica ed irrevocabile di dichiarare guerra alla Francia ed alla Gran Bretagna. Fu in quel punto in cui la follia ed il brivido del potere si combinarono con le conseguenze che ben tutti conosciamo. Quasi cinque anni dopo, un Mussolini con indosso una divisa tedesca, attendeva un verdetto già scritto da tempo. L’avevano catturato i partigiani mentre egli, stanco e malato, tentava l’ultima disperata fuga per salvare se stesso e la sua amante Claretta Petacci, dal destino che gli attendeva. Condotti con una Fiat 1100 a Giulino di Mezzegra, vicino al lago di Como, i due furono invitati a scendere. Il duce, attonito, si muoveva come un automa, egli forse non credeva a quello che stava succedendo. La Petacci singhiozzava.

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L’Italia, un Paese allo sfacelo era divenuta terra di nessuno dove eserciti diversi si combattevano, rancori vecchi e nuovi si consumavano in uno scenario granguignolesco. Tappeti di morti, fame e distruzione regnavano ovunque. Di tutto ciò un uomo aveva la responsabilità su tutti. Alle ore 16.10 del 28 aprile 1945, Walter Audisio, partigiano con il nome di battaglia colonnello Valerio, ebbe modo di finire nella storia. “In nome del popolo italiano” egli fece partire la scarica di 5 colpi di mitra che uccisero Mussolini e la Petacci. Il 30 Aprile, a piazzale Loreto a Milano, proprio dove un anno prima quindici partigiani furono brutalmente assassinati, i corpi senza vita del duce, dell’amante e di altri gerarchi come Starace, appesi a testa in giù alla tettoia di un distributore di benzina furono bersagliati da una folla che in preda all’isteria più totale si accanì sui cadaveri, insultandoli, sputando loro addosso, urinandoci e prendendoli a calci. Solo con molta difficoltà fu possibile far cessare questo linciaggio portando i corpi all’obitorio. Sic transit gloria mundi…

Stefano Carta

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