L’affaire Moro

Quarantadue anni fa, il 9 maggio 1978, in via Caetani a Roma, fu ritrovato il cadavere di Aldo Moro. In questo articolo l’intera, terribile vicenda che coinvolse il presidente della Democrazia cristiana: dal rapimento all’assassinio, fino alle tante inefficienze degli uomini politici e dell’apparato poliziesco e d’indagine.

I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia”, per usare il titolo del libro che l’ex giudice Ferdinando Imposimato ha pubblicato nel 2003, sono forse i giorni più cruciali nella storia dell’Italia repubblicana. Si parla dei cinquantacinque giorni che trascorsero tra il 16 marzo 1978 e il 9 maggio successivo. Sono questi i giorni in cui si consuma il sequestro dell’allora presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro; i cinquantacinque giorni del cosiddetto Caso Moro, ovvero l’insieme delle vicende relative all’agguato, al sequestro, alla prigionia e all’uccisione dello statista democristiano, comprese tutte le possibili ipotesi sull’intera vicenda e alle ricostruzioni degli eventi, spesso discordanti fra loro. È questo un argomento ricco di zone d’ombra conosciute solo da coloro che ebbero un ruolo attivo nella vicenda, per utilizzare le parole di Sergio Flamigni (membro delle Commissioni Parlamentari sul caso Moro e sulla P2, in quota PCI) intervistato da Michele Gambino per il pamphlet  “Il caso Moro” del 1992 “a non volere la verità sono i due uomini politici che il maggior ruolo hanno svolto intorno a questa vicenda, Giulio Andreotti e Francesco Cossiga”, rispettivamente presidente del Consiglio e ministro dell’Interno.

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Per comprendere al meglio come si svilupparono i fatti bisogna conoscere in quale contesto le Brigate Rosse elaborarono un progetto così ardito e definitivo. Quel 16 marzo del 1978 stava per dare alla nascita il quarto governo Andreotti, il primo in cui si sarebbero seduti addirittura ministri comunisti. L’indicazione del Comitato Centrale del Pci è quella di concedere l’appoggio esterno al nuovo governo monocolore che per la prima volta, come detto, avrebbe visto gli uomini di Berlinguer sedere tra i banchi della maggioranza. A questo fatidico momento si era arrivati proprio grazie al Compromesso Storico voluto proprio da Moro e Berlinguer, ma osteggiato dalla destra democristiana (rappresentata in primis da Giulio Andreotti) e dalle forze extraparlamentari alla sinistra del Partito Comunista. E furono proprio queste, a chiudere violentemente questa fase rapendo l’ex primo ministro.

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Il rapimento ebbe luogo in via Fani nella mattinata (alle 9.30) del 16 marzo, quando un commando composto da dieci brigatisti bloccò il convoglio che scortava il presidente della Dc, sparò sulla scorta uccidendo i cinque uomini per poi trascinare Moro in una macchina e darsi alla fuga. A partire da questo momento la vicenda si fa piuttosto ingarbugliata e la ricerca della “prigione del popolo” (come la chiamano i brigatisti) procede tra false piste, suggestive coincidenze, singolari sviste e clamorosi errori da parte degli inquirenti. Tutto ciò diventa ancora più eclatante se si pensa che nei mesi precedenti erano cominciate a girare strane voci che sembravano anticipare proprio il rapimento di Aldo Moro: ne allusero alcuni detenuti e il giornalista Mino Pecorelli, direttore della rivista Op vicina ad alcuni settori dei servizi segreti; fu un’ipotesi suggerita da alcune vignette della rivista satirica «Male» del febbraio dello stesso anno; e fu annunciata la possibilità di un attacco a Moro dal direttore di Radio Città Futura, Renzo Rossellini, ben mezz’ora prima che ciò avvenisse davvero. Queste affermazioni non vennero mai prese in considerazione e la stessa sorte toccò anche al nonvedente Giuseppe Marchi di Siena che raccontò di aver udito alcuni uomini dall’accento straniero, a bordo di un’auto in sosta, parlare e dire testualmente: “Hanno rapito Moro e le guardie del corpo” nella serata del 15 marzo. Nonostante nella zona in cui si trovava il Marchi fosse interdetta alle automobili ma, come avvenne in altre circostanze, la testimonianza del non vedente senese non fu mai approfondita negli anni.

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Un altro aspetto che incuriosisce è la scelta di Francesco Cossiga di costituire un comitato tecnico operativo composto da molte persone iscritte alla loggia P2, di cui ben poco si conosce perché i verbali delle riunioni arrivano solo al 3 aprile e di cui lo stesso Cossiga si servì poco, frequentandolo sporadicamente solo dopo il 21. A fianco di questo comitato ne creò, invece, un altro che lavorò in modo piuttosto misterioso, il “gruppo gestione crisi” composto per lo più da amici personali del ministro, parte dei quali sempre iscritti alla loggia di Gelli e ai cui incontri, presso il ministero della marina militare, partecipò spesso il venerabile maestro, come conferma Adriano Soffri nel suo libro “L’ombra di Moro”. I due comitati, però, servirono a ben poco e la loro inutilità è testimoniata dalle parole dell’allora procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma Pietro Pascalino di fronte alla commissione d’inchiesta sul caso Moro, che criticò aspramente la gestione dell’inchiesta : “Non spetta a me dire perché si preferì fare operazioni di parata invece che ricerche. Ma allora si fecero operazioni di parata”.

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Le “operazioni di parata” cominciarono già il 18 marzo, quando alcuni agenti del commissariato Flaminio Nuovo si presentarono al terzo piano della palazzina al numero 96 di via Gradoli, in seguito ad una soffiata che indicava la presenza di un covo delle Br all’interno 11. Arrivati sul posto, gli agenti bussarono alla porta senza ricevere nessuna risposta, mentre rispose Lucia Mokbel, inquilina del numero 9,che ammette di aver sentito degli strani rumori provenire dall’appartamento simili all’alfabeto Morse. A questa testimonianza non seguì nessun altro accertamento da parte delle forze dell’ordine, che preferirono invece andarsene senza predisporre ulteriori controlli. Al processo Moro fu anche presentato un falso rapporto, stando al quale i vicini avrebbero fornito rassicurazioni sul ragioniere Borghi, inquilino dell’interno 11, in realtà Mario Moretti capo della Colonna romana delle Brigate Rosse e fondatore di esse assieme a Renato Curcio.

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Il nome di Gradoli tornerà successivamente nelle indagini quando durante una seduta spiritica, a cui partecipò pure il futuro presidente dell’Iri Romano Prodi, un’entità avrebbe indicato Gradoli come luogo di prigionia di Moro. Nessuno volle però perquisire nuovamente il palazzo, mentre si decise di perlustrare un intero paesino in provincia di Viterbo con il medesimo nome. La porta dell’interno 11 fu finalmente sfondata solo il 18 aprile, quando i vicini ne denunciano l’allagamento. Anche se smentito categoricamente da tutti i brigatisti interrogati, è palese che si tratti di una messinscena organizzata perché esso venga scoperto: il telefono della doccia è sorretto da una scopa e puntato contro una fessura nel muro aperta con uno scalpello, in modo da far filtrare meglio l’acqua lungo i muri e fino all’appartamento dei vicini che ovviamente chiameranno i pompieri. Dietro a questo fatto c’è una coincidenza particolare, molto particolare, infatti il giorno stesso dell’allagamento viene diffuso un falso comunicato brigatista, il Comunicato n.7, in cui si annuncia la morte di Moro “mediante suicidio” e che il cadavere si troverebbe in fondo al lago della Duchessa, nei dintorni di Rieti. Fin da subito il documento fu smentito dall’avvocato dei brigatisti, Giannino Guiso che lo definì “una provocazione del Viminale”, e infatti ben presto si scoprì che a redigerlo era stato Tony  Chicchiarelli, falsario pregiudicato appartenente alla Banda della Magliana. Non si sa ancora se fu proprio Cossiga a suggerire tale mossa, come gli suggerì il magistrato Claudio Vitalone, per non lasciare i brigatisti padroni del gioco, né si sa perché si scelse proprio Chicchiarelli, un personaggio ambiguo che sembra sapere parecchio sui sequestratori di Moro e nella cui casa sono stati ritrovati due spezzoni di foto scattate durante la prigionia, che fu poi ucciso prima che potesse testimoniare sull’accaduto.

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In quei giorni vi furono tante altre perquisizioni, e il 3 aprile vi furono addirittura più di duecento irruzioni in appartamenti abitati da giovani di estrema sinistra che portarono a 129 fermi, di cui solo 41 arrestati. La maggioranza delle persone arrestate però erano del tutto estranee all’area dei fiancheggiatori e dei simpatizzanti delle Br, mentre contemporaneamente si trascura un rapporto del capo della Digos che indica Valerio Morucci e Adriana Faranda (i “postini” del sequestro Moro) come appartenenti alla colonna romana delle Brigate Rosse; tale atteggiamento degli inquirenti risulta sorprendente, e sembrerebbe teso a alimentare tensioni e confusione, piuttosto che seguire piste concrete che avrebbero potuto portare ad individuare la prigione segreta.

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L’opinione pubblica, negli anni, si è convinta che Moro sia stato abbandonato, condannato a morte, da quei compagni di partito e alleati stranieri (leggasi Stati Uniti) che ne sconfessavano la politica di avvicinamento ai comunisti e che vedevano in lui un pericolo per la sopravvivenza occidentale contro l’invasione sovietica. Per quanto riguarda gli USA, tale teoria, sarebbe confermata in primis da un editoriale del 18 marzo pubblicato sul «Washington Post», che in Italia fu ripreso dal «Corriere della Sera», dall’emblematico titolo: “Si spera che dopo il delitto nasca un nuovo modo di governare”. Tralasciando il fatto che in quelle ore Moro era ancora vivo, colpisce come secondo il quotidiano americano la scomparsa dello statista favorirebbe la conclusione della vecchia tradizione italiana di governi deboli. Oltre alla stampa, a destare perplessità c’è Steve Pieczenick, uomo del dipartimento di Stato americano, voluto da Cossiga stesso all’interno del comitato di crisi. Alla commissione parlamentare d’inchiesta, l’ex capo di Stato parlò dell’americano come una qualificata collaborazione a livello di gestione della crisi senza mai specificarne, però, il ruolo effettivamente svolto. A differenza di tanti altri atti ufficiali e documenti di quei giorni, che andarono misteriosamente smarriti o distrutti, all’ambasciata americana a Roma è conservata una copia di ciò che scrisse; in una trentina di cartelle intitolate Ipotesi sulla strategia e tattica delle Br e ipotesi sulla gestione della crisi è possibile leggere la strategia dell’inviato del Dipartimento di Stato. Il documento consiste in una serie di consigli che Pieczenick offre a Cossiga per gestire il momento di crisi politica e controllare i magistrati (la domanda numero 9 di Cossiga è: “Come possiamo creare strumenti idonei di controllo dei magistrati?”), “sfruttare in maniera discreta nuove leggi” e “accrescere la capacità di controllo e di informazione”; per quanto riguarda la gestione del rapimento Moro, invece, egli suggerisce di controllare la famiglia del politico e obbligarla a collaborare oppure isolarla completamente. Il lavoro dell’americano sembra fornire una strategia che va ben oltre alla tragica circostanza in cui viene elaborata. Ricordando parte del programma di Gelli, suggerisce di sfruttare l’occasione per stringere la catena del potere attorno ai mezzi d’informazione e alla magistratura provocando forti perplessità sul reale ruolo svolto dagli Stati Uniti nella vicenda.

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Un altro punto che genera dubbi e curiosità è la reazione che generano le lettere di Moro dalla prigionia. In totale sono 11 gli scritti che invia a collaboratori, colleghi e famigliari senza però che esse siano mai prese troppo sul serio. Lo dirà lo stesso presidente del Consiglio Andreotti in occasione della perizia calligrafica sulla terza lettera spedita il 29 marzo: “Quale che sia il responso dei periti, la condizione di Moro è tale da togliere ogni validità morale agli scritti”, sia nel momento in cui avvisa di essere sul punto di svelare segreti inconfessabili relativi alla Dc (informazioni redatte nel Memoriale Moro, ma inspiegabilmente inutilizzate dai sequestratori per ricattare lo Stato), sia quando chiede disperatamente aiuto pochi giorni prima di essere ucciso. È questo il caso della lettera indirizzata all’onorevole Dell’Andro, che Moro riuscirà a fare avere a don Mennini, il parroco di cui si serviva per far recapitare diverse lettere riservate.

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Questa lettera è accompagnata da un biglietto particolare, contenente indicazioni meticolose e superflue per rintracciare l’onorevole: “On. Renato Dell’Andro: può essere all’albergo Minerva (mi pare proprio che si chiami così, proprio di fronte alla chiesa) o al ministro della Giustizia, o alla fine alla sede del gruppo Dc a Montecitorio. Se per dannata ipotesi avessi sbagliato il nome dell’albergo sappi che i due alberghi sono così”, e di seguito traccia un dettagliato disegno di piazza della Minerva con due edifici su angoli opposti. Essi non sono però i due alberghi citati nel messaggio, ma uno dei due è la chiesa della Minerva a cui non ha fatto alcun riferimento. Tale chiesa però è spesso frequentata da padre Felix Morlion, un domenicano legato ai servizi segreti francesi, belgi e americani. In Italia egli ha costituito una rete di spionaggio che, stando ad un documento riservato acquisito dalla commissione Stragi, produce un rapporto quotidiano sulla situazione politica trasmesso «ad altissime personalità e ai dirigenti dei servizi collegati». Pare quindi probabile che Moro in quel messaggio, così come in quasi tutte le sue lettere, inserisca delle indicazioni in codice utili al suo ritrovamento e sulla sua condizione di prigioniero; della medesima idea è il fratello di Moro, Alfredo Carlo, che di fronte alla commissione Stragi nel 1990 spiega: “Mi sembra di poter sostenere che da varie lettere, ovviamente tra le righe, emerge il tentativo di far percepire all’esterno che la situazione doveva essere assai più complessa di un mero rapimento da parte di un piccolo nucleo di terroristi” e infatti sottolinea che il fratello parla apertamente di “un ordine brutale partito chi sa da chi”.

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Ad alimentare i dubbi sul sequestro fu il già citato Carmine Pecorelli. Su O.P. egli definì l’agguato di via Fani come “il segno di un lucido superpotere” che agiva indisturbato ed esterno alle Br. Pecorelli dimostra di essere a conoscenza fin dall’inizio dei retroscena del rapimento, e già da parecchio tempo prima che avvenisse: “Il cervello direttivo che ha organizzato la cattura di Moro – scrive subito dopo il sequestro – non ha niente a che vedere con le Brigate Rosse tradizionali. Il commando di via Fani esprime in forma desueta ma efficace la nuova strategia politica italiana. Curcio e compagni non hanno nulla a che vedere con il grande fatto tecnicistico politico del sequestro Moro””. Il 23 maggio, poi, nel primo articolo dopo il ritrovamento del cadavere lancia precise accuse, anche se velate, soffermandosi sul muro sotto il quale fu ritrovata la Renault rossa con il corpo: “Dietro ci sono i ruderi del teatro di Balbo, il terzo anfiteatro di Roma; ho letto in un libro che a quel tempo gli schiavi fuggiaschi e i prigionieri vi venivano condotti perché si massacrassero tra di loro. Chissà cosa c’era nel destino di Moro perché la sua morte venisse scoperta proprio contro quel muro? Il sangue di allora e il sangue di oggi”. Leggendo le parole del giornalista, assassinato misteriosamente nel novembre del 1979, non si capisce immediatamente dove voglia andare a parare riferendosi parlando di schiavi e prigionieri che combattono nell’arena.

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Ma quando verrà scoperta la struttura clandestina di Gladio, il riferimento ai gladiatori si farà molto chiaro in quanto essi sono gli unici a combattere tra di loro nell’arena. Il 17 ottobre invece accusa direttamente Cossiga: “Il ministro di polizia sapeva tutto, sapeva persino dove era tenuto prigioniero Moro, dalle parti del ghetto… perché un generale dei carabinieri era andato a riferirglielo di persona nella massima segretezza”. E poi continuava spiegando che «il ministro non poteva decidere nulla su due piedi, doveva sentire più in alto… magari fino alla loggia di Cristo in paradiso”, chiaro riferimento alla massoneria che all’epoca aveva molti legami all’interno delle stanze del potere italiano. Purtroppo cosa davvero sapeva Pecorelli non sarà mai svelato, il giornalista dopo la sua morte lasciò diversa documentazione che fu sequestrata nella sua casa e nel suo ufficio, ma nessuno sa che fine fecero tali documenti che non furono mai inviati alla commissione Moro.

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Il 23 maggio 1980 la commissione d’inchiesta sul caso Moro interrogò l’allora presidente del consiglio Francesco Cossiga, presumibilmente l’unico informato su tutto ciò che avvenne nei cinquantacinque giorni dato che seguì la vicenda nel ruolo chiave di ministro dell’Interno. Di sicuro su quei giorni sapeva parecchio, però fornì alla commissione una serie di affermazioni inesatte a partire dalla situazione politica dell’epoca: egli disse di non essere al corrente della possibilità di azioni terroristiche imminenti. Ciò risulta falso, infatti tre mesi prima del rapimento era giunto alla questura romana un avvertimento chiaro e attendibile: “Si sta concretamente preparando l’irlandizzazione di Roma”, a cui Cossiga stesso farà più volte riferimento parlando del modello terroristico dell’IRA adottato in Italia. Un altro aspetto su cui l’ex primo ministro mentì fu l’auto blindata di cui Moro era sprovvisto: egli ammise che a posteriori la protezione dell’onorevole risultò insufficiente, ma che all’epoca era considerata adeguata e inoltre disse che pure Andreotti non utilizzava l’auto blindata, pur avendone l’opportunità. Entrambe le affermazioni risultano false perché anche personaggi di minor rilievo rispetto a Moro erano dotati dell’auto blindata, mentre a Moro non fu mai concessa, e addirittura le Br stesse rinunciarono a sequestrare Andreotti proprio perché protetto con il mezzo blindato. Sempre a proposito dell’automobile di sicurezza, Cossiga ammise che Moro non avanzò mai nessuna richiesta a riguardo ma, tale affermazione, fu smentita categoricamente dalla moglie di Moro e dalle mogli degli uomini della scorta che assicurarono che la richieste venne avanzata dopo che furono notati movimenti sospetti attorno al presidente e dopo che fu data per certa la presenza di brigatisti a Roma.

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Tutte queste inesattezze, false piste seguite, superficialità e testimonianze non vagliate dagli inquirenti lanciano sul caso Moro un’ombra di forti sospetti, ombra che negli ultimi mesi si è intensficata dopo le rivelazioni fatte da alcuni ex agenti. In primis la lettera inviata al quotidiano «La Stampa» in cui un ex agente dei servizi segreti si identifica come colui che, a bordo di una moto Honda di colore blu insieme ad un collega torinese, sparò contro un civile (l’ingegner Alessandro Marini che si stava recando al lavoro) per evitare che svoltasse in via Fani, in modo da coprire l’azione brigatista. Nella lettera egli spiega anche dove trovare le armi usate descrivendo pure l’altro agente e ammette che all’epoca erano agli ordini del colonnello del Sismi Camillo Guglielmi, anche addestratore di Gladio, che effettivamente si trovava in quell’area perché, a suo dire, invitato a pranzo da un collega. L’ex ispettore di polizia Enrico Rossi ha svolto un’inchiesta personale e ora chiede che si faccia luce su queste nuove rivelazioni ma, al tempo stesso, denuncia il silenzio assordante che è seguito alla sua richiesta e si dice convinto che si sia persa “una grande occasione perché c’era un collegamento oggettivo che doveva essere scandagliato”. Un’altra recente rivelazione è quella dell’artificiere Vitantonio Raso, il primo a recarsi in via Caetani in seguito alla telefonata delle Br delle 12.13. Egli, sempre a «La Stampa» ammette che dando la notizia a Cossiga e ai suoi uomini si stupì di non vederli sorpresi e depressi, “come se sapessero o fossero già a conoscenza di tutto”. Raso continua ammettendo che le cose non andarono come si è raccontato finora: “La telefonata delle Br delle 12.13 fu assolutamente inutile. Moro era in via Caetani da almeno due ore quando questa arrivò. Chi doveva sapere, sapeva”, ma anche di fronte a queste pesanti affermazioni l’artificiere non fu mai interrogato.

Andrea Tagliaferri

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