Gli elefanti del giornalismo italiano

Una notizia è tale solo quando accresce il lettore e la sua cultura, quando gli fa capire qualcosa che non capiva, quando gli insegna qualcosa che non sapeva. Altrimenti non è nulla. È solo intrattenimento.

Se del giornalismo italiano delle origini abbiamo conservato qualcosa, se dal taccuino di Dino Buzzati o di Ugo Ojetti è rimasto qualcosa, se la chiusura dell’Omnibus di Longanesi o le dimissioni di Luigi Albertini hanno insegnato qualcosa, tutto questo qualcosa va ricercato nei conti correnti degli editori e negli articoli vuoti dei giornalisti contemporanei. Delle Gazzette veneziane cinquecentesche che costavano una gazeta e che informavano i cittadini della Serenissima su ciò che avveniva oltremare, c’è rimasto soltanto l’uso ultimo che i pescatori fanno tuttora della carta: metterci il pesce. L’informazione è a uso e consumo di chi la fa; i grandi pachidermi parlano ad altri pachidermi di altri pachidermi: il lettore, il telespettatore, vengono informati su ciò che gli elefanti del giornalismo credono il pubblico voglia essere informato; della cultura italiana rimangono i libri che non si pubblicano più, e che muoiono, soffocati dal peso dello share e della vendita facile.

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I grandi elefanti del giornalismo parlano di altri elefanti ad altri elefanti perché conoscono solo elefanti; la carriera del pachiderma comincia in giovane età, appena varca la soglia della porta d’ingresso secondaria del giornale diretto dal vecchio, caro amico di famiglia, o dal direttore che al padre “deve un favore”. Da buon ragazzo di bottega sbriga le noiose faccende degli elefanti di redazione, sfrecciando per le vie di Roma e Milano sulla bici d’ordinanza, col borsello carico di sigarette e tabacco, di crema da barba, di scatole di ketoprofene; il gel sui capelli tirati all’indietro per sembrare più grande dell’età che ha e il ritorno, in redazione, che gli fa allargare il cuore, con la promessa di una prima pubblicazione. E così coi favori, con gli inchini, coi sorrisi, si costruiscono i futuri direttori, che una volta diventati tali applicano tutto ciò che hanno imparato nei quaranta anni di carriera, alla ricerca del grande, ricco elefante a cui dire sempre: “sì, signore”.

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Gli elefanti vogliono i toni esasperati e le inutili notizie che attirano il grande pubblico, solito a frequentare gli zoo. Gli elefanti sono maestri nell’incantare questo pubblico; muovono la proboscide a destra, a sinistra; la oscillano in avanti per permetterle di stare al centro. E mantengono, sempre, qualche amicizia all’interno delle altre gabbie, in quelle gabbie in cui gli altri elefanti oscillano la lunga proboscide dalla parte a loro contraria e avversa. Prospettandosi un futuro là, pronti a morire per la causa dei nuovi compagni compatrioti, a seconda di dove vanno i soldi del pubblico che la domenica va a visitare lo zoo. E l’informazione italiana, da decenni, unisce in questa maniera l’inutile al dilettevole. I grandi elefanti restano in prima fila poiché il pubblico li riconosce, e cerca sempre una testa con cui pensare; se un calcolo viene sbagliato, se un argomento viene omesso, se una notizia manipolata, i pachidermi son sempre lì, sempre vergini appena riprendono posto nel marciapiede dell’informazione. Tutto, in questo mondo cortigiano, ha un prezzo: il lavoro e la dignità sono equiparate nel listino delle retribuzioni. E il giornalismo perde il suo fascino intellettuale, il suo scopo, il suo potere di controllo che dovrebbe avere presso i potenti, per trasformare lo scrittore nel lavapiatti che in cucina lava, pulisce e stira tutto ciò che il suo datore di lavoro ha reso maleodorante e sudicio.

Stefano Poma

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