Letteratura di Dostoevskij

“In tutta la mia vita non ho venduto una sola opera senza prendere prima i denari. Io sono un letterato proletario e spesso il principio di un romanzo o d’un racconto era in tipografia e in composizione e la fine giaceva ancora nella mia testa”.

La critica russa, sempre intenta a riconoscere in ogni scrittore il frutto o l’esponente di una classe, vide in Dostoevskij il tipico rappresentante della letteratura, secondo l’espressione di Michajlovskij. Dostoevskij fu l’unico grande scrittore non progressista della sua generazione; fu l’unico ingegno dell’epoca che subordinò non solo al sentimento religioso, ma anche all’arte, quella che veniva chiamata la missione sociale dello scrittore. Ciò non avvenne senza le contraddizioni proprie del periodo storico in cui visse, e, soprattutto, della sua natura d’uomo e d’artista, nutrita d’aspirazioni profetiche e da una vocazione messianica e mistica. Resta indubbio che fu sempre alieno dal considerare l’arte come un mezzo invece che un fine. Dostoevskij, al contrario di Tolstoj, non rinnegò la cultura, e mai cedette alla tentazione di ridurre la letteratura a polemica o a cronaca, come un qualunque giornalista. Dostoevskij ripugnò la letteratura di tendenza, il libro scritto come un articolo di fondo: ed ecco rivelarsi di fronte a questa ripugnanza uno straordinario talento di giornalista. Anche qui egli rivelò un grande senso della discrezione e della misura, e servì sempre questa vocazione direttamente, nelle riviste altrui o più spesso in quelle da lui fondate, contaminando ben di rado i suoi scritti d’attualità o di polemica con l’arte del narratore. E che quella violazione, così piena d’onestà professionale, fosse veramente esuberante e prepotente, lo dimostra il fatto che colui che era di già l’autore di “Delitto e castigo” e de “L”Idiota”, le dedicò quasi completamente gli ultimi anni della sua vita, salvo il breve intervallo d’un anno occupato dalla composizione del suo capolavoro.

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Nel “Giornale d’uno scrittore” l’ingegno giornalistico di Dostoevskij si rivela limpido, e palesa un intelletto capace di volgersi ai più diversi interessi, di distrarre senza deviare o tradirsi, e che riesce a fondere in un’attività letterale unitaria anche le rubriche più correnti della cronaca quotidiana, occupandosi di sociologia e di politica, di processi celebri e di critica militante; prendono posizione dinanzi al problema ebraico e a quello del socialismo, alla questione orientale e a quella romana, alla guerra del ’70, all’avvenire dell’Europa e alla missione della Chiesa ortodossa, alla protezione dell’infanzia e alle riforme della pedagogia. Dostoevskij fu l’eccezione del suo mondo poetico – ancora inaccessibile alla grandissima ed estesa inqualificabile massa di lettori comuni – a portare la reciproca incomprensione fra sé e il pubblico. A questa tragedia della sua vita, come la vedeva lui, concorse ancora di più l’impopolarità dell’atteggiamento religioso e politico, il quale gli valse gli attacchi più spietati da parte della critica, o, come espressivamente fu detto, della censura liberale e progressista del tempo, da cui fu quasi messo al bando. Gli attacchi degli intellettuali di sinistra non lo risparmiarono in nessun periodo della sua attività, sotto forma di colpi infertigli da amici e colleghi. Fu odiato soprattutto come pubblicista e, eccetto “I fratelli Karamazov”, suo ultimo romanzo, nessuna delle sue grandi opere poté evitare la sorte d’essere considerata come una calunnia della gioventù.

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Questo fatale destino dell’opera aumentò le sue già gravi difficoltà economiche, le quali angustiarono sempre la vita dello scrittore; e così, colui che fra i grandi russi ebbe in sorte una delle più alte coscienze letterarie e il più brillante talento giornalistico del tempo, fu condannato a divenire il forzato della letteratura e un mestierante dell’arte, un martire del proprio lavoro o, come disse Strachov, “un vero eroe della carriera letteraria”. Il bisogno lo costrinse a produrre come una macchina; egli stesso confessò: “In tutta la mia vita non ho venduto una sola opera senza prendere prima i denari. Io sono un letterato proletario e spesso il principio di un romanzo o d’un racconto era in tipografia e in composizione e la fine giaceva ancora nella mia testa”. Ciò spiega l’incongruenza di certi episodi, perfino nei suoi capolavori; e certo l’impazienza febbrile e disordinata del suo corso stilistico è dovuta spesso anche a questa ragione. L’amore per il suo popolo russo, l’ansia di una giustizia economica che non c’era, la coscienza di quali siano i mali e i bisogni che più affliggono le masse o le classi indigenti, prendevano in lui forma ben sincera. Questo senso di carità sociale riusciva ad accordarsi con un intransigente fanatismo dell’ortodossia e con un nazionalismo imperialistico. Accanito nemico dei sistemi parlamentari dell’occidente, risoluto negatore delle concezioni sociali basate sull’idea d’evoluzione o di progresso, non divenne mai un reazionario e restò sempre fedele alle sue povere origini, nutrendo dentro di sé, per tutta la sua esistenza, l’aspirazione ad una forma più alta e concreta di democrazia.

Federica Bellagamba

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