E dopo Caporetto arrivò Vittorio Veneto

Centodue anni fa, il 4 novembre 1918, l’Italia concludeva la Grande Guerra con la vittoria e l’affamato Impero austroungarico firmava l’armistizio. Nell’autunno del 1917 gli austriaci morivano letteralmente di fame. La situazione era disperata e il Re Carlo chiese aiuto al Kaiser Guglielmo. Bisognava respingere gli italiani. I tedeschi fecero arretrare i soldati di Cadorna – che in due anni di guerra ne conquistarono ottanta – di centocinquanta chilometri. 

Ai primi di maggio del 1915, quando la Grande Guerra affliggeva il continente europeo da nove lunghi mesi, gli italiani erano divisi tra neutralisti e interventisti. L’Italia era formalmente legata ad Austria e Germania dagli accordi della Triplice Alleanza, ma il presidente del Consiglio Salandra e il ministro degli Esteri Sonnino, diedero mandato all’ambasciatore italiano a Londra, il marchese Guglielmo Imperiali da Francavilla, di negoziare coi rappresentati francesi e inglesi dell’Intesa. E in gran segreto, all’insaputa del Parlamento, dell’opinione pubblica e della stampa, il 26 aprile venne firmato il Patto di Londra, rendendo per otto giorni l’Italia alleata contemporaneamente di entrambi i blocchi belligeranti. Tuttavia la notizia era nell’aria e in tutto il Paese si respirava l’ansiosa attesa dei grandi eventi. Una violenta trepidazione divampava sulla stampa e nelle piazze mentre l’incertezza generale, quella parte silenziosa che non si era ancora schierata, quella timida maggioranza che era stata a guardare lo svolgersi degli eventi, celebrava l’intervento nelle radiose giornate di maggio. Il cinque, di ritorno da Parigi, Gabriele D’Annunzio sullo scoglio di Quarto inaugurò il monumento dedicato a Garibaldi, arringando una folla entusiasta dalla sua grande oratoria, agitando le sue corte ma vivaci braccia e trasformando l’interesse per l’imponente statua scolpita da Eugenio Baroni verso quello per la guerra contro l’Austria: “Voi volete un’Italia più grande non per acquisto, ma per conquisto, a prezzo di sangue e di gloria. Udite, udite: la Patria è in pericolo, la Patria è in punto di perdimento. Intendete? Avete inteso? Viva Trento e Trieste, viva la guerra”, concluse D’Annunzio, mentre la folla eccitata agitava i suoi eleganti cappelli.

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Si inaugurava la retorica interventista. Filippo Tommaso Marinetti scoprì la guerra come “sola igiene del mondo”, il socialista Benito Mussolini  invitò all’”Audacia, a una parola da innalzare forte, in maniera spiegata, senza infingimenti, con sicura fede, una parola paurosa e affascinante: guerra”, e Giovanni Papini calcolò che “siamo troppi! La guerra è un’operazione malthusiana. C’è un di troppo di qua e un di troppo di là che si premono. La guerra rimette in pari le partite”. Quasi un milione di uomini vennero mandati al fronte, un’intera generazione che vide spegnere il proprio entusiasmo nel fango e nei reticolati delle trincee. Quando finalmente il papa, il primo agosto del ’17, scrisse una lettera a tutti i governi belligeranti per invitarli a trovare un accordo “giusto e duraturo” che ponesse fine alla “inutile strage”, una tremenda nube si stava per abbattere sul fronte italiano. Si preparava la dodicesima battaglia dell’Isonzo, ma questa volta i reparti austriaci lasciavano il posto a quelli tedeschi, comandati dal generale prussiano von Below.

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L’urto fu tremendo. Le difese italiane vennero spazzate via, quasi trecentomila soldati furono fatti prigionieri e l’esercito dovette arretrare per centocinquanta chilometri, dall’Isonzo al Piave. La battaglia di Caporetto spense l’entusiasmo generale, la guerra sembrava finita e il capo di Stato Maggiore, Luigi Cadorna, scaricò la colpa della disfatta sui soldati, e in particolare “sulla mancata resistenza di reparti della seconda Armata, vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico senza combattere”. Carlo Emilio Gadda, un sottotenente degli alpini che partì in guerra volontario e che faceva parte dell’armata che subì l’urto maggiore a Caporetto, quella di Cavaciocchi, scrisse sul suo diario: “Il generale Cavaciocchi, che deve essere un perfetto asino, non ha mai fatto una visita al quartiere, non s’è mai curato di girare per gli alloggiamenti dei soldati. Asini, buoi grassi, pezzi da grand hotel, avana, bagni; ma non guerrieri, non pensatori, non ideatori, non costruttori; incapaci di osservazione e d’analisi, ignoranti di cose psicologiche, inabili alla sintesi; scrivono nei loro manuali che il morale delle truppe è la prima cosa, e poi dimenticano le proprie conclusioni”. Il generale Rosai, anche lui responsabile per la disfatta di Caporetto e assetato di punizioni scriverà: “L’olio di ricino e il bastone hanno trovato lavoro”. E l’olio di ricino e il bastone, come è noto, dopo la vittoria di Vittorio Veneto andranno presto di moda.

Stefano Poma

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