L’eccidio delle Fosse Ardeatine

Settantasette anni fa, il 24 marzo 1944, nei giorni seguenti all’attentato di via Rasella, avvenuto per mano partigiana e nella quale persero la vita 32 tedeschi, i nazisti, per rappresaglia, uccisero 335 italiani.

335 gli uccisi, tra prigionieri civili e militari italiani, per mano tedesca il 24 marzo 1944. L’eccidio delle Fosse Ardeatine fu una delle più grandi ed efferate stragi nazifasciste compiute in territorio italiano e fu la risposta cruenta del comando tedesco in Italia all’attentato del GAP romano, svoltosi il giorno precedente, di via Rasella in cui caddero 33 soldati del reggimento “Bozen”, appartenente alla Ordnungspoli. Il primo ad arrivare sul luogo dell’attentato fu il questore Pietro Caruso, raggiunto poco dopo dal generale Kurt Malzer, comandante della piazza di Roma, che, sconvolto dalla violenza dell’atto di guerriglia, annunciò immediatamente di voler attuare una dura “vendetta per i miei kameraden”: le sue intenzioni erano di distruggere l’intero quartiere romano e di eliminarne tutti gli abitanti. Solo il consigliere d’ambasciata Mollhausen e il colonnello Kappler, arrivati successivamente, riuscirono a calmare la furia di Malzer assicurando che sarebbe stata svolta un’accurata inchiesta per appurare modalità e responsabili dell’attacco. Fu lo stesso Adolf Hitler in persona, quando venne avvertito quello stesso pomeriggio, a ordinare una rappresagli immediata “che avrebbe fatto tremare il mondo” in cui sarebbero dovuti morire tra i trenta e i cinquanta italiani per ogni tedesco ucciso nell’attentato partigiano.

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Di tale ordine, però, non esistono documenti ufficiali e in realtà la decisione della rappresaglia fu presa da Malzer, Kappler e dal generale Eberhard von Mackensen (comandante dalla 14ª Armata e diretto superiore del generale Malzer). Fu proprio quest’ultimo a ridurre le pretese del fhurer a “soli” dieci italiani per soldato, stabilendo anche che questi fossero scelti tra i Todeskandidaten, ovvero i prigionieri romani già condannati a morte o all’ergastolo o i cui reati prevedessero una condanna a morte. La decisione definitiva, però, fu presa nella serata del 23 marzo dal feldmaresciallo Kesserling che ritenne appropriato “compiere un’azione intimidatoria”, ma non nelle inattuabili proporzioni richieste da Hitler in persona. Dunque Kesserling appoggiò la proposta del comandante della 14ª Armata di uccidere con esecuzione immediata dieci prigionieri italiani per ogni soldato ucciso. Nel novembre 1946, testimoniando al processo per quell’eccidio, lo stesso Kesserling confermò che non furono emessi avvertimenti di alcun tipo riguardanti la rappresaglia e che ai partigiani non fu mai richiesto di consegnarsi per evitare l’eccidio. L’unica preoccupazione del comando tedesco fu quella di svolgere il tutto il più velocemente possibile, entro le successive ventiquattrore, e nella più completa segretezza, oltre che individuare in così poco tempo un altrettanto alto numero di prigionieri fucilabili.

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Fin da subito, ben prima che Kesserling prendesse la decisione definitiva, Malzer cominciò a individuare i possibili prigionieri da eliminare: le due prigioni di via Tasso e di Regina Coeli disponevano in tutto di 290 prigionieri tra uomini e donne, quindi un numero ben inferiore a quello che via via si stava delineando (all’inizio delle ricerca i morti tedeschi erano ancora 28), dato che le donne furono escluse subito dalla lista e che in diversi tra gli uomini non avevano i requisiti richiesti. Di conseguenza Kappler chiese l’aiuto del questore Caruso che, immediatamente, promise di fornire al più presto una lista con ulteriori cinquanta prigionieri sacrificabili. A questi, Kappler, ottenne il permesso di aggiungere anche 57 ebrei, ai quali aggiunse un’altra ventina di nomi tra antifascisti e “noti comunisti” rastrellati durante la giornata in via Rasella. Nella notte tra il 23 e il 24 continuò frenetica la ricerca dei Todenkandidaten: Priebke testimoniò che all’elenco si aggiunsero anche uomini in attesa di giudizio per oltraggio alle truppe tedesche, per possesso di armi da fuoco o esplosivi o perché presunti capi di movimenti clandestini; Keppler aggiunse poi Aldo Finzi, ebreo con un importante passato di amicizia e collaborazione con Mussolini; il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, capo del Fronte Militare Clandestino dell’esercito, e altri 37 militari italiani, compresi due capitani dei carabinieri che arrestarono il duce il 25 luglio 1943; don Pietro Pappagallo, sacerdote accusato di attività comuniste; il partigiano Marcello Bucchi e Paolo Petrucci, professore di liceo accusato di antifascismo. Compresi i 50 nomi promessi dal questore, contavano di essere arrivati a un totale di 320. Nella mattinata del 24 marzo, Caruso, non era ancora riuscito a trovare i nomi promessi e dopo una dura discussione con Kappler dovette abbandonare la propria missione. Al suo posto si fece avanti il capo della squadra politica della polizia fascista di Roma, Pietro Koch, che promise i 50 nomi per il primo pomeriggio.

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La scelta dell’area destinata all’esecuzione fu un ulteriore problema, e si optò per le antiche cave di pozzolana in via Ardeatine perché la fossa comune era facilmente occultabile facendo crollare con l’esplosivo l’ingresso alle gallerie stesse. Verso l’una morì anche il trentatreesimo soldato ferito, così Kappler aggiunse casualmente e di sua spontanea iniziativa dieci ebrei tra quelli arrestati nelle ultime ore nonostante il completamento dell’elenco; la stessa procedura fu effettuata per i 50 nomi supplementari relativi all’elenco di Caruso e di Koch: furono prelevati cinquanta detenuti a caso e tra di essi alcuni erano poi compresi nell’elenco (esso arrivò a esecuzione già avviata), ma dieci erano addirittura in procinto d’essere rilasciati. Alle 15.30 cominciarono le fucilazioni sotto il preciso controllo di Priebke (che a ogni turno depennava i nomi dall’elenco), 67 turni dato che i prigionieri furono divisi in gruppi di cinque,  per concludersi verso le 20. Controllando la lista in suo possesso, Priebke si accorse che erano presenti cinque prigionieri in più: egli informò immediatamente Kappler, il quale decise di far fucilare anche loro per non lasciare alcun testimone dell’accaduto. Le esplosioni che fecero crollare gli ingressi alle gallerie furono, però, udite dai frati salesiani che fungevano da guide alle vicine catacombe, i quali avevano osservato il frenetico andirivieni di soldati e prigionieri per tutto il pomeriggio. Quando le cave furono riaperte, al loro interno furono trovati i cadaveri ammassati in gruppi alti oltre un metro e mezzo.

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A guerra conclusa i gerarchi responsabili dell’eccidio furono processati:

– Herbert Kappler fu processato e condannato all’ergastolo da un tribunale italiano e rinchiuso in carcere. La condanna riguardò, però, solo i 15 giustiziati non compresi nell’ordine di rappresaglia datogli per vie gerarchiche. Colpito da un tumore inguaribile, con l’aiuto della moglie riuscì ad evadere dall’ospedale militare del Celio, il 15 agosto 1977, e a rifugiarsi in Germania, ove morì pochi mesi dopo, il 9 febbraio 1978.

 

– L’ex capitano delle SS Erich Priebke, dopo una lunga latitanza in Argentina, nel 1995 venne arrestato ed estradato in Italia, fu condannato all’ergastolo per la strage delle Fosse Ardeatine. Morì a Roma l’11 ottobre 2013.

 

– Albert Kesserling, fu catturato a fine guerra, processato e condannato a morte il 6 maggio 1947 da un tribunale militare britannico per crimini di guerra e per l’eccidio delle Fosse Ardeatine, sentenza che poi fu commutata nel carcere a vita. Nel 1952 fu scarcerato per motivi di salute e fece ritorno in Germania. Morì nel 1960 per un attacco cardiaco.

 

Andrea Tagliaferri

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