Primo Levi, il sopravvissuto inascoltato di Auschwitz

Centouno anni fa, il 31 luglio 1919, a Torino nasceva Primo Levi. Di origine ebraica, nel febbraio del ’44 venne deportato dai nazisti nel campo di sterminio di Auschwitz Birkenau. Liberato dall’Armata Rossa il 27 gennaio ’45, passò la sua vita a raccontare gli orrori della Shoah, anche se molti, forse quasi tutti, preferirono non sentire e dimenticare. 

Primo Levi è cresciuto nella piccola comunità ebraica di Torino. Nella stessa città si è laureato con lode in chimica nel 1941. Due anni più tardi si unì con degli amici, nel nord Italia, nel tentativo di connettersi con un movimento di resistenza, ma fu catturato e inviato ad Auschwitz. Mentre era lì, Levi lavorava come schiavo per una fabbrica di gomma sintetica, la IG Farbenindustrie. Dopo la liberazione di Auschwitz da parte dei sovietici nel 1945, Levi tornò a Torino, dove nel 1961 divenne direttore generale di una fabbrica che produceva vernici, smalti e resine sintetiche; l’associazione doveva durare circa 30 anni. Primo Levi torna, dunque, nella sua casa in Corso Re Umberto, dove nessuno lo stava aspettando. A 26 anni è irriconoscibile. Indossa una vecchia uniforme dell’Armata Rossa, la malnutrizione gli gonfiava il viso, nascosto da una folta barba arruffata. Se i mesi seguenti gli permettono di ricostruirsi fisicamente, di contattare i sopravvissuti e di cercare lavoro a Milano, i traumi dalla sua esperienza nel campo di concentramento, nel quale morirono molti dei suoi amici, riaffioravano. Raccontava le terribili storie di Auschwitz ai passeggeri che incontrava sul treno. Scriveva poesie, inclusa una che darà il titolo al suo primo libro. Alla festa del Capodanno ebraico nel 1946, incontra Lucia Morpurgo, che gli offre di insegnargli a ballare. E Primo Levi se ne innamora. Nell’aprile del 1948, mentre Lucia era in attesa del loro primo figlio, Levi decise di interrompere la sua carriera di chimico indipendente e si rivolse all’azienda di famiglia di pitture e vernici di Federico Accatti, i cui prodotti erano commercializzati con il nome di SIVA. Nell’ottobre 1948 nasce Lisa Levi.

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Come capo chimico della SIVA compie numerosi viaggi in Germania, dove incontra i suoi colleghi tedeschi. Si prende cura di indossare sempre camicie a maniche corte, lasciando apparire il numero di Auschwitz tatuato sull’avambraccio. Questo spesso lo porta a evocare la depravazione dei nazisti, nonché la mancanza di pentimento e redenzione richiesta dalla maggior parte dei tedeschi, compresi molti agenti che sfruttavano il lavoro schiavistico nei campi. Promuove attivamente delle campagne, le quali erano finalizzate nel non far morire il ricordo dei campi. Visita Buchenwald nel 1954, nel nono anniversario della liberazione, così come negli anni seguenti, instancabilmente per tutta la sua vita. Sebbene la sua vita sia innegabilmente migliorata, il ricordo del passato torna, inesorabile, specialmente quando uno dei suoi amici ad Auschwitz si trova nei guai o muore. Tra questi, Lorenzo Perrone, il benefattore di Primo Levi nel campo; incapace di superare il passato, cadde nella miseria e nell’alcolismo. Morì nel 1952, nonostante gli sforzi e gli aiuti di Levi. Ma un altro argomento di angoscia lo colpiva violentemente: Auschwitz, invece di entrare nella storia, sembrava sprofondare nell’oblio. Il primo libro di Levi, “Se questo è un uomo” del 1947, ha dimostrato lo straordinario distacco della sua analisi nei confronti delle atrocità a cui aveva assistito nel campo di sterminio. Le sue opere autobiografiche successive, “La tregua” del 1963 e “I sommersi e i salvati” del 1986 sono ulteriori riflessioni sulle sue esperienze in guerra. “Il sistema periodico” del 1975 è una raccolta di 21 meditazioni, ciascuna denominata per un elemento chimico, sulle analogie tra la sfera fisica, chimica e morale; di tutte le opere di Levi, è probabilmente il suo più grande successo critico e popolare. Ha anche scritto poesie, romanzi e racconti.

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Venne trovato morto l’11 aprile 1987, nell’ingresso del suo palazzo, sotto la tromba delle scale della sua casa in Corso Re Umberto 75, a seguito di una caduta. Primo Levi scrisse: “Se un uomo sopravvive è necessaria la sua testimonianza”. Leggendo numerose testimonianze, partecipando a numerosi incontri di ex deportati, visitando più di 130 scuole, divenne una figura simbolica, non solo delle vittime ebre, ma soprattutto della lotta contro il fascismo. Secondo Levi, gli agenti dell’Olocausto, oltre al loro tentativo di annientare completamente un popolo per mano di una razza chiamata “superiore”, calcolarono consapevolmente che questo tentativo sarebbe caduto nella negazione o nell’oblio una volta terminata la guerra. Quindi che era, e Primo Levi lo ripete più volte, un terreno sperimentale di una sistematicità organizzata e meccanizzata, che ha spinto al recupero dei sottoprodotti fino all’uso delle ceneri prodotte dalla cremazione corpi per costruire strade. Il campo di Auschwitz non era un atto isolato ma un prototipo che sarebbe stato applicato a tutta l’Europa se Hitler avesse vinto la guerra. L’autore ha lottato ferocemente con il pubblico, e soprattutto i giovani, contro ogni tentativo di interscambio o campo revisionista, denunciando il rifiuto di Robert Faurisson, e rifiutando ogni ipotesi di equivalenza tra Gulag sovietico e Lager nazista dopo la pubblicazione l’Arcipelago Gulag e altre opere di Alexander Solzhenitsyn alla fine degli anni Sessanta. Levi stimava che la loro natura fosse diversa. Nessuno doveva uscire vivo dai campi nazisti, mentre questo non era il caso del Gulag dove la mortalità era pari al 30 percento nei peggiori dei casi contro il 90-98 percento nei campi nazisti. Inoltre, il “crimine” dell’essere ebreo non poteva essere cancellato, essendo considerato una questione di razza, vale a dire di nascita. L’Olocausto fu una delle peggiori atrocità della storia dell’umanità, dove furono massacrati sei milioni di uomini, donne e bambini, con la solo accusa di essere nati.

Vittorio Scacco

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