L’eccidio delle Fonderie Riunite di Modena

Settantadue anni fa, il 9 gennaio 1950, nella rossa Emilia-Romagna, uno sciopero culminava con un eccidio causato dalle pistole delle forze dell’ordine; morirono 6 operai e ne furono feriti altri 50.

Si era nel pieno della Guerra Fredda in quel lontano 1950, in una delle regioni rosse per eccellenza, quell’Emilia Rossa di cui Modena era una delle principali città industriali oltre che roccaforte delle lotte operaie e del PCI. La DC aveva vinto le elezioni del 18 aprile dell’anno precedente e la mano del governo nei confronti delle rivendicazioni operaie si era decisamente acuita. Contemporaneamente Adolfo Orsi, proprietario delle Fonderie Riunite di Modena, fascista dichiarato e amico di Italo Balbo, decretò il licenziamento di 565 lavoratori (utilizzò la “serrata” come risposta alle rivendicazioni sindacali degli operai) per poi riassumerne circa 300 tra quelli meno attivi negli scioperi. La risposta di PSI, PCI e CGIL non si fece attendere e organizzarono, per la mattina del 9 gennaio, una manifestazione davanti a i cancelli della fabbrica nel quartiere Crocetta. La tensione era alta. Per le vie della città era scesa quasi l’intera popolazione modenese in solidarietà ai licenziati, e Orsi aveva fatto blindare la propria fabbrica con cecchini posizionati sui balconi limitrofi. Non ci furono reali scontri di piazza ma, improvvisamente, la polizia cominciò a sparare. Il risultato fu una carneficina: i feriti accorsi in ospedale furono un centinaio, gli arrestati 34 e a terra restarono 6 operai, colpiti a morte dai proiettili delle forze dell’ordine.

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Angelo Appiani (30 anni, partigiano, metallurgico) fu il primo a cadere, mentre era a colloquio con i carabinieri; uno di essi lo freddò con un colpo di pistola, colpendolo in pieno petto da distanza ravvicinata. Arturo Chiappelli (43 anni, partigiano, spazzino), freddato mentre era intento ad attraversare i binari ferroviari delle Fonderie.  Arturo Malagoli (21 anni bracciante), freddato a bruciapelo da un carabiniere. Roberto Rovatti (36 anni, partigiano, metallurgico) si trovava in fondo a Via Santa Caterina, vicino alla chiesa, dal lato opposto e distante 500 metri dai primi caduti. Aveva una sciarpa rossa al collo. Era passata mezz’ora dalla prima sparatoria quando veniva circondato da un gruppo di carabinieri, scaraventato dentro un fosso e massacrato con i calci del fucile. Ennio Garagnani (21 anni, carrettiere), mentre si recava al comizio in Piazza Roma, venne centrato alla nuca dal proiettile sparato dall’alto da un cecchino. Poco dopo mezzogiorno Renzo Bersani (21 anni metallurgico), attraversava la strada a piedi, in fondo a Via Menotti, all’incrocio con Via Paolo Ferrari e Montegrappa. Un graduato dei carabinieri distante oltre un centinaio di metri si inginocchiò a terra, prese la mira col fucile e sparò, colpendolo in pieno.

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L’operazione di polizia si rivelò un piano studiato a freddo per intimidire i lavoratori e i loro rappresentanti. Nenni e Togliatti si recarono subito a Modena a presiedere una riunione con i dirigenti locali e nello stesso giorno migliaia di persone invasero le vie della città con un grande striscione in apertura del Corteo: “La caccia è aperta: 6 operai uccisi a Modena”. La reazione dei rappresentanti dei due principali partiti di sinistra fu immediata. Togliatti, d’accordo con la compagna Nilde Iotti, decise l’adozione della piccola Marisa, sorella di Arturo Malagoli e a Modena pronunciò un discorso di fuoco dove condannava apertamente il governo democristiano di Scelba: “In uno Stato che ha soppresso la pena di morte anche per i più efferati tra i delitti, voi siete stati condannati a morte, e la sentenza è stata su due piedi eseguita nelle vie della città, davanti al popolo inorridito. Chi vi ha condannati a morte? Chi vi ha ucciso? Un prefetto, un questore irresponsabili e scellerati? Un cinico ministro degli interni. Un presidente del consiglio cui spetta solo il tristissimo vanto di aver deliberatamente voluto spezzare quella unità della nazione che si era temprata nella lotta gloriosa contro l’invasore straniero; di aver scritto sulle sue bandiere quelle parole di odio contro i lavoratori e di scissione della vita nazionale che ieri furono del fascismo e oggi sono le sue. Voi chiedevate una cosa sola, il lavoro, che è la sostanza della vita di tutti gli uomini degni di questo nome. Una società che non sa dare lavoro a tutti coloro che la compongono è una società maledetta. Maledetti sono gli uomini che, fieri di avere nelle mani il potere, si assidono al vertice di questa società maledetta, e con la violenza delle armi, con l’assassinio e l’eccidio respingono la richiesta più umile che l’uomo possa avanzare: la richiesta di lavorare”.

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Il 10 gennaio, invece, in un fondo de «L’Avanti», Nenni sferrò un duro attacco politico: “Il governo cattolico di De Gasperi e Scelba (il ministro degli Interni) con la sua politica di fame, odio e paura ha condotto al delitto permanente”. Terracini, davanti ai deputati dell’opposizione, denunciava le morti di Modena come “omicidi premeditati, eseguiti a sangue freddo”.

Andrea Tagliaferri

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