Don Giovanni Minzoni, il prete antifascista

Novantasette anni fa, il 23 agosto 1923, nel paese di Argenta, in provincia di Ferrara, il parroco Don Giovanni Minzoni, simbolo dell’antifascismo e decorato sul campo con la medaglia d’argento al valore militare durante la Grande Guerra, venne ucciso a manganellate dagli squadristi di Italo Balbo.

All’indomani della Grande Guerra i movimenti politici furono scossi da una profonda crisi, esito di quella che fu definita da Gabriele D’Annunzio una “vittoria mutilata”. La democrazia, il parlamentarismo, erano in pericolo e la morbidezza dei capi liberali nei confronti dei “rossi” intimidiva la borghesia, già fortemente indebolita da un’economia che faticava a ripartire. Ma, all’alba del 1923, gli italiani guardavano con fiducia una luce accesa da una finestra di Palazzo Chigi, dove da poco più di un mese il nuovo Primo Ministro, Benito Mussolini, riceveva i suoi consiglieri, seduto dietro al suo largo tavolo cinquecentesco.

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All’improvviso gli italiani scoprirono di essere fascisti e la tessera del partito divenne l’oggetto più ambito. Scrisse don Sturzo: “Oggi vi è un Governo: il capo mostra volontà ferma; si sente uno che comanda: dopo circa due anni che non si sentiva la parola voglio, c’è un uomo che vuole. L’Italia ha bisogno di chi comandi e di chi voglia, e dimentichi i torti”. In questo apparente clima di normalizzazione maturarono i peggiori crimini del fascismo: a Torino furono uccisi ventidue operai, a La Spezia tredici. La sera del 23 agosto, tre uomini, squadristi di Italo Balbo, spaccarono la testa al parroco di Argenta, don Giovanni Minzoni. Promotore coraggioso dell’organizzazione giovanile cattolica della sua zona, convinto antifascista della prima ora, don Minzoni si era prefissato il compito di allontanare i ragazzi ferraresi dalle organizzazioni giovanili fasciste. Proponeva, in alternativa, l’iscrizione ai gruppi degli scout, regalava tessere per le biblioteche e abbonamenti al cinema.

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Con le sue opere di carità verso i più bisognosi, solitamente reduci della Grande Guerra, nella quale egli stesso partecipò come cappellano militare volontario, e con la sua attività pastorale e sociale, divenne un punto di riferimento amato e stimato, seppur in quella provincia storicamente “rossa”. Quando ormai le minacce fasciste si fecero preoccupanti e continue, scrisse sul suo diario: “Gli avversari mi fanno colpa dell’influenza spirituale che ho nel paese. Ma che debbo farci se il paese mi vuol bene? Come un giorno per la salvezza della patria offersi tutta la mia giovane vita, felice se a qualche cosa potesse giovare, oggi mi accorgo che battaglia ben più aspra mi attende. Ci prepariamo alla lotta tenacemente e con un’arma che per noi è sacra e divina, quella dei primi cristiani: preghiera e bontà. Ritirarmi sarebbe rinunciare ad una missione troppo sacra”.

Stefano Poma

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