Il cinema secondo Pier Paolo Pasolini

“Facendo il cinema io vivevo finalmente secondo la mia filosofia. Ecco tutto!”.

“Facendo il cinema io vivevo finalmente secondo la mia filosofia. Ecco tutto”. Una filosofia che Pasolini avrebbe dispiegato in un film formato da episodi, intitolato “Che cos’è il cinema?”, se solo la scomparsa del grande Totò non avesse vanificato il progetto. Nel saggio “La fine dell’avanguardia”, Pasolini esplica il suo pensiero in merito al linguaggio cinematografico dopo aver fatto un breve cenno critico alle teorie letterarie di Goldmann, sull’idea di omologia tra struttura sociale e struttura romanzesca, di affinità tra personaggio e coscienza collettiva della sfera sociale ed economica entro cui agisce. Pasolini avanza il pensiero che il valore letterario non possa prescindere dalla lingua, dalla qualità della narrazione, dal momento stilistico, e che l’ipotesi di omologia sia troppo semplicistica poiché ridurrebbe la struttura del romanzo al suo contenuto. L’omologia può esserci dunque tra la struttura sociale e la struttura stilistica. Il cinema rappresenta un’eccezione a queste leggi, poiché appare a Pasolini come una lingua universale, affine solo all’intera umanità civile, poiché fondata sulla riproduzione audiovisiva della realtà . Essa è identica in ogni Paese perché evidenzia la realtà e si definisce, proprio per questa ragione, transnazionale e transclassista. Riporta poi la trama di un episodio che rientrava nel progetto filmico con Totò, scrivendo le parole che avrebbe dovuto proclamare l’attore: Il cinema è una lingua – canta Totò – una lingua che costringe ad allargare la nozione di lingua. Riproduce la realtà: immagine e suono! La realtà è un linguaggio. Il cinema è la lingua scritta di tale realtà come linguaggio .

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Il cinema è un infinito piano sequenza, poiché infinita è la realtà che riproduce. Esso permette di evidenziare la connotazione della realtà, di costruirne una semiologia, che per associazione sarà semiologia del cinema. L’autore cinematografico avrà, nelle intenzioni, l’espressione di un senso che trascenda il significato; la volontà di far succedere qualcosa nella sua opera, di richiamare soprattutto la realtà, quintessenza del senso trascendente. Questo intento è proprio di ogni arte metonimica, in cui i sensi dei segni (in questo caso degli im-segni) entrano in contagio. Poiché il montaggio è il principale veicolo dello stile ed è metonimia, il cinema ne acquisisce la connotazione. La stessa realtà è metonimica e la sua metonimicità non è infine che la linearità con cui la realtà ci parla. Insomma, le inquadrature di un film non sono sostituibili, perché non sono sostituibili gli oggetti della realtà che il seguito delle inquadrature rappresenta, secondo il seguito con cui essi si rappresentano naturalmente a noi.

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Soprattutto, lo statuto del cinema è di tipo irrazionalistico: e questo spiega la profonda qualità onirica del cinema, e anche la sua assoluta e imprescindibile concretezza, diciamo, oggettuale. Esso prende spunto dalla successione di immagini della memoria e dei sogni, suoi archetipi prettamente soggettivi, e dalle immagini del reale, dalla mimica, archetipi intensamente, brutalmente oggettivi, per costituirsi come fisicità onirica. Pasolini è dell’idea che il cinema abbia sempre violentato questi elementi irrazionalistici, costruendo una convenzione narrativa propria della comunicazione di prosa, manchevole, tuttavia, del fattore ultimo di essa: la razionalità. La lingua cinematografica è, dunque, posta tra la comunicazione espressiva e la comunicazione riflessiva; il primo atto propriamente soggettivo, si ha nel momento in cui il regista opera la scelta del vocabolario dei suoi im-segni. L’oggettività sintattica non gli è garantita come a uno scrittore: la scelta delle immagini corrisponde a una visione estetica e a una competenza stilistica personali. Insomma il cinema, o il linguaggio degli im-segni, ha una doppia natura: è insieme estremamente soggettivo e estremamente oggettivo. I due momenti di tale natura coesistono strettamente, non sono separabili neanche in laboratorio.

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Mentre in letteratura le due tipologie di lingua possono scindersi, nel cinema esse rappresentano gli estremi di un segmento, attraverso il quale i film determinano la loro tendenziale prosaicità o poeticità. Il cinema è potentemente metaforico ma altrettanto comunicativo, poiché esso non può presentare immagini astratte ma solo quelle esclusivamente collimanti con la realtà. Attraverso quali espedienti può instaurarsi la lingua della poesia nel cinema? Pasolini risponde con il discorso libero indiretto: l’autore si immerge nel personaggio e ne adotta la psicologia e la lingua. Esso corrisponde alla soggettiva, infinitamente meno articolata e complessa della letteraria. La soggettiva si differenzia dal monologo, poiché quest’ultimo presuppone l’astrazione, impossibile per la realtà oggettiva insita nell’arte cinematografica. L’interiorizzazione non può che avvenire tramite le immagini, che lasciano poco spazio alle facoltà evocative innescate dalla parola. Nonostante risulti chiara la differenza tra gli sguardi sulle cose che diversi personaggi hanno tra loro, non può operarsi una mappatura dello sguardo; resta un atto puramente induttivo. Estendendo il discorso, una lingua cinematografica non è istituzionalizzabile, non può che corrispondere alla psicologia e al contesto culturale dell’autore, che svolge, attraverso la soggettiva, un esercizio di stile, avvalendosi di ispirazione sinceramente poetica. Il cinema pone l’accento non soltanto sulla “poesia della realtà”, ma sull’istante creativo, sulla costruzione del senso che opererà lo stile; riporta in auge il significato letterale di poesia ‒ dal greco poiéin, “creare, inventare, fare”. L’afflato poetico tecnico permette il ritorno all’introspezione tipica dell’immaginazione, della memoria e dei sogni, barbarica, irregolare, aggressiva, visionaria.

Mariele Gioia Papa

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