Omnibus, il settimanale che cambiò il giornalismo italiano

Ottantaquattro fa, il 3 aprile 1937, usciva il primo numero di Omnibus, primo esempio di giornale moderno che inaugurò lo stile a rotocalco. Fondato e diretto da Leo Longanesi, fu chiuso da Mussolini diciotto mesi più tardi e nel dopoguerra sarà la base per tutto il giornalismo italiano.

Dopo aver conquistato l’Etiopia e aver dato agli italiani un “posto al sole”, Mussolini progettò un nuovo giornale rivolto alle masse, popolare e illustrato; un rotocalco che fosse un efficace mezzo di propaganda e che potesse alimentare l’entusiasmo imperiale fascista. E Longanesi, nel gennaio del ’37, venne convocato dal duce a Palazzo Venezia. “Alle otto del mattino, dietro alla scrivania, in fondo alla Sala del Mappamondo, il duce stava scrivendo una lettera. «Ti informo» disse con spiccato accento romagnolo «che sarai direttore di Omnibus…». Longanesi cominciò a ringraziare, ma Mussolini gli tese il palmo della mano davanti al volto. «Al tempo» lo interruppe. «Lo sarai con Monicelli». Silenzio. «Farete un ottimo lavoro». Aprì un cassetto, traendone fuori una cartella: «Le prove di stampa non sono male» aggiunse. «Ma cosa metterai, che cosa metterete in prima pagina?». Longanesi non glielo disse, perché Mussolini si sarebbe infuriato, come difatti s’infurierà vedendo la foto di Léon Blum sparata su quattro colonne. «E il titolo? Che cosa mi dici del titolo?» domandò ancora a un Longanesi per metà contento e per metà deluso. «Ma come, duce, l’abbiamo deciso assieme…». «Scelta tua» rispose Mussolini «a me sembra un tranvai… Puoi andare, buon lavoro».

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Mentre Italia e Germania marciavano fianco a fianco, eseguendo il passo dell’oca, il 28 marzo, con la data 3 aprile 1937, usciva il primo numero di «Omnibus». Costava una lira, aveva sedici paginone (più grandi di quelle d’un quotidiano) splendide fotografie ed eccellenti servizi. L’apertura era di Carlo Scarfoglio su Léon Blum, con la foto che strappò una bestemmia a Mussolini. In seconda, un articolo di Lloyd George (Verso la guerra) era un efferato calcio negli stinchi al Regno Unito; in terza una grande fotografia di Mussolini sovrastava un lungo saggio sull’Islam di Mario Missiroli (anche se firmato Omnibus). In quarta e in quinta un racconto di Saroyan e il Diario del colonnello russo Kustoff sulla fuga del Negus. Recensioni di Arrigo Benedetti, Bonaventura Tecchi e Mario Praz riempivano la quinta pagina all’insegna del «Sofà delle muse», che diventerà poi una collana diretta da Leo per Rizzoli; e subito dopo Corrado Alvaro, dalla Russia, in una corrispondenza combatteva il mito di Stalin. Greta Garbo e Marlene Dietrich, in foto ammiccanti, fissavano il lettore dalla pagina otto, tra un articolo siglato A.D. (Antonietta Drago, ch’era poi la biondissima Nené Centonze). Arricchiva le due pagine successive la vita di Cavallotti narrata dall’estroso Savinio. Il ventaglio di Mariù (che da lì a un anno firmerà Irene Brin), con sicurezza di gusto commentava la moda, non già per spiegarla ma per imporla. Franco Civinini, poiché Mussolini andava al Terminillo seguito da tutto il generone romano, s’occupava (ironicamente) di sci. Mario Soldati pubblicava la prima puntata dell’appassionante romanzo La verità sul caso Motta. Una rubrica finanziaria, Mercurio, spiegava l’andamento dei prezzi per grano e cotone. E la fine fleur occhieggiava nelle ultime due pagine: Il sorcio del violino di Renato Barilli raccontava la musica, accanto a un Savinio, lunare e inventivo, appeso sopra i palcoscenici di prosa dai suoi Palchetti romani. Nell’ultima pagina, quel talentaccio di Maccari graffiava gli scapoli (c’era la tassa sul celibato) con esilaranti vignette, più mosse e più popolari di quelle che andava pubblicando sul «Selvaggio».

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Omnibus fu un successo editoriale e il primo numero vendette quarantaduemila copie. Nella rivista scriveranno, tra gli altri, Riccardo Bacchelli, Arrigo Benedetti, Vitaliano Brancati, Dino Buzzati, Emilio Cecchi, Paolo Monelli, Indro Montanelli, Alberto Moravia, Mario Pannunzio, Mario Soldati e Primo Zeglio. Con tutti, Longanesi si comportava da inflessibile editor. Suggeriva gli articoli, li commissionava, li correggeva, li ritagliava e li rimaneggiava. Scrisse Irene Brin su «Il Borghese» del 10 ottobre ’57, pochi giorni dopo la prematura morte di Longanesi: “Io non mi chiamo né Irene, né Brin, anche se configuro così in contratti, elenchi telefonici, discussioni famigliari. Sono nomi inventati da Longanesi. Io sono un’invenzione di Longanesi, come molte altre persone che ebbero la fortuna di passargli accanto, di svegliare in qualche modo il suo interesse, di scatenare la sua furiosa pazienza costruttiva. Senza stato maggiore, ma direttamente e implacabilmente, Longanesi riscrisse non solo i nostri scritti, ma i nostri cervelli. Il primo segno di stima me lo diede con le prime e violente correzioni. Era una biografia della Duse, che mi tornò zebrata di cancellature e rimproveri: dannunziano, sovraccarico, troppi avverbi, ripetizione, togliere i puntini di sospensione. Ma anche un periodo, incorniciato a matita, con questo va benissimo. Eravamo all’inizio della mia educazione, nel gennaio 1938, e fu come iniziare una serie di esperimenti chimici, passando da uno stato di ebetudine ad uno stato di esaltazione, dall’avvilimento alla rabbia, dalla limpidità al disordine. Longanesi non si limitava a rewrite i miei articoli, ma me. Scoprivo di non aver mai saputo, né visto, né inteso niente. Manovrando un pezzo di spago, arrampicandosi sul suo sgabello, scendendone, strappando una fotografia, chiamando il fattorino che divideva con un giornale fotografico installato nello stesso appartamento, Longanesi mi spiegava la politica e la letteratura e l’arredamento e la religione e la cucina e la società, sotto un’apparente disciplina di giornalismo. Insomma, mi inventava, collocandomi nei miei diversi ruoli e nei miei diversi pseudonimi, ma inventava anche tutti gli altri”.

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I fondi a disposizione di Longanesi erano limitati e senza potersi servire della collaborazione di grandi firme del tempo, la redazione romana di via del Sudario 28 pullulava di giovani dalle belle speranze. Quasi tutti coetanei del trentaduenne Leo, apprendevano i segreti del mestiere da quel giovane maestro, il quale non dovette aspettare i figli degli uomini della sua generazione per insegnare il suo stile. Longanesi, oltre a creare talenti, li scovava: “Eravamo io e Mario Pannunzio” ricordava Montanelli all’uscita della sua biografia su Longanesi scritta con Marcello Staglieno, “l’anno era il 1937, che ridevamo a crepapelle leggendo un poema in versi di un certo Brancati, illustre sconosciuto, che si chiamava Piave. Longanesi ci chiese: «che ridete?». E noi: «di questa bischerata», mostrandogli il poema. Lui cominciò a leggerlo poi ci disse: «il coglione non è questo che scrive, i coglioni siete voi che ne ridete». Allora Pannunzio, piccato: «non cominciamo con i paradossi, questa è una puzzonata». «È vero», rispose Longanesi, «è una puzzonata, ma dentro c’è un talento. Voglio conoscere questo Brancati». Io andai a cercarlo al giornalaccio dove lavorava: «Il Tevere» di Interlandi, il giornale del fascismo più bieco. Brancati aveva 19 anni e si emozionò quando seppe che Longanesi lo voleva conoscere. Portai da Leo questo ragazzetto piuttosto malmesso, bruttarello, stortignaccolo, e Leo gli disse: «ma lei chi si crede di essere? Lo sa chi è lei? Glielo dico io: lei è un piccolo Gogol’ di provincia, un gogolino di Catania. Mi scriva un romanzo sulle corna di Catania, sui seduttori di Catania». E fu il Don Giovanni in Sicilia. Intendiamoci: Brancati sarebbe diventato Brancati anche senza Longanesi. Leo gli accorciò la ricerca di sé stesso di cinquedieci anni”.

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«Omnibus» era un settimanale di dibattito culturale e artistico, di curiosità mondana e satira di costume, di musica e di teatro, di grande formato, con molte fotografie e vignette, dovute alla matita di Maccari, Bartoli, Novello, Apolloni, Mosca, Leporini. Si trattò del primo periodico culturale stampato come un rotocalco ed ebbe subito un notevole successo. Aveva una struttura composita, dai contenuti in apparenza esaltanti il regime e la sua politica, spesso polemici o sarcastici, quando non volutamente ambigui, soggetti a una duplice lettura, una sorta di «rifugio del dissenso dal consenso», come scrisse Montanelli. Anche in questo organismo, d’altra parte, scrivevano alcuni personaggi il cui orientamento politico e culturale era ormai definito in senso avverso al fascismo” . E Longanesi, con l’arma della satira e grazie all’utilizzo massiccio di bellissime fotografie riuscì, dal di dentro, a mettere in luce i lati più oscuri del regime, aggirando quella censura che, anno dopo anno, mese dopo mese l’aggravarsi della crisi internazionale, diventava sempre più intollerante.

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Il primo numero aprì con una grande fotografia a quattro colonne di Léon Blum, presidente del Consiglio francese, e il titolo Léon Blum, l’Amleto dell’economia. Quella prima pagina non piacque a Mussolini e, secondo il suo maggiordomo Quinto Navarra, appena gli posero quel nuovo giornale sulla scrivania tirò una bestemmia. Ma arrivò, fatalmente per l’Europa, l’anno in cui tutti i nazionalismi vennero esasperati, il 1939. In un periodo nel quale tutta la stampa doveva intonare l’inno al regime, doveva esaltare la superiorità della stirpe e il forte attaccamento alla patria, Alberto Savinio scrisse sull’«Omnibus» del 28 gennaio un articolo intitolato “Il sorbetto di Leopardi”. Lo scrittore si recò a Napoli con l’intento di raccontare le celebrazioni che si tennero nella città partenopea per il primo centenario dalla morte di uno dei padri della letteratura italiana, Giacomo Leopardi. Per Savinio il poeta era morto di cacarella a Napoli per avere ingerito troppi gelati in delle caffetterie poco pulite. Scrive Savinio: “Leopardi morì durante un’epidemia di colera, di una leggera colite che i napoletani chiamano ‘a caccarella”. Dopo due anni di vita e novantacinque numeri, Mussolini aveva la scusa per sopprimere lo scomodo Omnibus. Qualche giorno dopo, il due febbraio, il Minculpop diede ordine al prefetto di Roma di chiudere il rotocalco di Longanesi, che sarà la base per tutto il giornalismo italiano del dopoguerra.

Stefano Poma

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