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Il «Corriere» di Luigi Albertini. Venticinque anni, dal 21 maggio 1900 al 28 novembre 1925. Entrato al giornale nel 1896 come segretario di redazione, Albertini divenne presto il pupillo del fondatore del «Corriere», Eugenio Torelli Viollier. Il temperamento del giovane Luigi emerse subito. Ventinovenne, due mesi dopo aver preso il posto del direttore Domenico Oliva era diventato proprietario di due carature del quotidiano, che allora si trovava in via Pietro Verri. Il «Corriere» non era ancora il primo giornale d’Italia. La sua tiratura era di 75.000 copie. Maggiore era quella de «Il Secolo» di Milano, 100.000 copie, e de «La Tribuna» di Roma, che superava le 150.000. Nei primi anni della sua direzione, Albertini rinnovò tecnicamente il «Corriere», acquistando le rotative cilindriche linotype, utilizzate soprattutto negli Stati Uniti e in Inghilterra, che garantivano tirature più elevate; creò varie riviste indipendenti che stimolavano i diversi interessi dei lettori, come «La Domenica del Corriere», «La Lettura» e «Il Corriere dei Piccoli»; trasferì la sede del giornale in un ampio palazzo in via Solferino dotata di tre telefoni, collegati con Roma, Milano, Torino e Parigi; elaborò una vivace corrispondenza per l’acquisizione di notizie dall’Italia e dall’estero; promosse grandi inchieste, come quella di Luigi Barzini in Cina durante la rivolta dei boxer; introdusse la terza pagina, sulla quale collaboravano scrittori quali Giovanni Verga, Grazia Deledda e Gabriele D’Annunzio. Il «Corriere» di Albertini non dipendeva da nessuno. La linea del giornale non era influenzata da nessuna ingerenza, né politica, né economica, e questo portò il quotidiano ad essere considerato il grande organo del liberalismo italiano. Pratico e aperto al mondo, ma anche fieramente italiano, Albertini poteva permettersi la conquistata indipendenza grazie al suo talento a livello organizzativo, che aveva portato il «Corriere» ad essere un’azienda giornalistica, la quale gestiva in modo autonomo la pubblicità, fondamentale nella vita economica di un giornale libero. Il quotidiano milanese influenzava, specialmente nel Centro-Nord, l’opinione pubblica italiana borghese, ma anche quella delle fasce sociali più umili, desiderose d’ascesa nella nuova Italia del suffragio universale. E, per la prima, nel 1906 il «Corriere della Sera» superava «Il Secolo», diventando il primo giornale italiano per diffusione con 150.000 copie di tiratura, arrivando a 400.000 durante la guerra di Libia e a un milione di copie durante la Grande Guerra. Voluta anche da Albertini, l’entrata nel conflitto dell’Italia fece nascere una nuova aristocrazia di combattenti che il 28 ottobre 1922 portò al potere Benito Mussolini e il fascismo. Dapprincipio, il direttore del «Corriere» non ostacolò i fascisti. Condivideva, con essi, la restaurazione dello Stato e dell’ordine. Ma dopo le minacce alla libertà di stampa, l’omicidio Matteotti e i decreti liberticidi la politica di Albertini divenne fortemente antifascista. Mussolini, instaurata la dittatura, impose ai proprietari del «Corriere» la sostituzione del direttore, ormai ai margini del nuovo clima politico che stava nascendo dalla rivoluzione nazionale fascista. Ma cosa rappresentava il «Corriere» di Albertini per i contemporanei che vissero le inquiete e avventurose vicende del primo quarto di secolo italiano ed europeo? Gaetano Afeltra, assunto al giornale di via Solferino nel 1942, scrisse nel suo libro Corriere primo amore: “Se gli altri quotidiani erano letti rapidamente da mio padre, il Corriere restava a lungo con i suoi fogli aperti sulla scrivania, e papà si attardava a leggerlo con calma. Più tardi mi resi conto che il Corriere era una specie di divinità giornalistica, fornita di un verbo infallibile. «L’ha detto il Corriere» si sentiva ripetere quando si voleva dire che non c’era dubbio, che ciò che era scritto era sicuramente vero e che le opinioni erano quelle giuste. Potenza e fascino di Albertini? Sicuramente!”.

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ste.poma84@hotmail.it

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