L’italiano

Articolo tratto dal primo numero de «Il Caffè» del dieci ottobre 2020. 

Prima dell’invenzione della stampa, avvenuta nel 1454 per opera del tipografo tedesco Gutenberg, i libri venivano minuziosamente copiati a mano, risultando rari e costosi; la cultura era, di conseguenza, un lusso. Per la quasi totalità della popolazione sapere leggere e scrivere non era né considerato necessario né utile: la loro cultura si basava sull’apprendimento per imitazione dei comportamenti sociali e delle capacità lavorative presenti nella propria comunità. Si cominciava molto presto, da bambini, ad aiutare gli adulti nel lavoro agricolo, artigianale e domestico, raggiungendo già dalla tenera età un’approfondita conoscenza dei mestieri che si sarebbero dovuti svolgere, meccanicamente, per tutto il resto della vita. La fantasia, la libertà di pensiero era fatalmente abolita: la cultura veniva tramandata attraverso la tradizione orale dei cantastorie, la quale garantiva la trasmissione, di generazione in generazione, di leggende popolari e di poemi epici. I cambiamenti intervenuti dall’età premoderna in poi, hanno sconvolto l’equilibrio tradizionale delle “cose fatte in casa”; l’alfabetizzazione, nei Paesi industrializzati, si è estesa a gran parte della popolazione. Ed ecco arrivare i librai, le case editrici, i giornali a larga diffusione, Giuseppe Pomba, Giovan Pietro Viesseux e l’editore genovese Emilio Beuf. Ecco arrivare gli scrittori, gli intellettuali, i giornalisti, i lettori; ecco nascere un nuovo mercato: ecco che l’uomo dal lavoro contadino, dai campi, dalla carpenteria, passa a quello della penna.

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Ma è un passaggio molto labile: l’atteggiamento è lo stesso, si coltivano allo stesso modo cultura e carciofi. Il concime è sempre lo stesso, quello della tradizione, delle antiche leggende e dei poemi epici. Si produce il prodotto nella speranza di venderlo, ripiegando sui gusti dei potenziali acquirenti, evitando di preparare in cucina una nuova pietanza, un nuovo piatto frutto della propria fantasia. Così l’intellettuale perde la propria libertà, la propria autonomia, la propria indipendenza, in cambio di una penna che traccia inchiostro in modo meccanico, figlio della imitazione e della tradizione collettiva, tramandata come la cultura della vendemmia da una generazione all’altra. In una società in cui l’apparenza, l’arruffio, la superficialità hanno preso il posto della cultura, avere una cultura è un peso insostenibile; l’evoluzione editoriale avuta con Gutenberg si ferma al 1454: se allora erano i libri rari e costosi, ora è la cultura rara e costosa. Leggere, informarsi, apprendere, richiede tempo, e il tempo è denaro: l’ultimo iPhone non si acquista conoscendo trenta date storiche in più o ragionando sulla dialettica di Hegel. Le date storiche non interessano: a ricordare il 20 settembre, il 25 aprile, il 2 giugno, ci penserà l’intellettuale, lo scrittore, il giornalista. È pagato per questo. E così la cultura si ferma, si fa tradizione, diventa depositaria della coscienza degli editori, i quali la utilizzano a proprio piacimento, per far quattrini, vendendola nei loro colorati scaffali accanto ai cosmetici. E il lettore compra i libri e i giornali così come compra un profumo, scegliendo sempre quello preferito, con gesti meccanici e per abitudine: non ha nemmeno il tempo per scegliere, soffermarsi, perché il tempo è denaro, egli pensa. La mancanza di alternative ha prodotto la situazione attuale, nella quale tutti possono dire la propria senza crederci fermamente.

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Tutti possono cambiare idea, cercandone di nuove tra le opinioni dei nuovi possibili lettori; la libertà di giudizio obbedisce solo alle logiche del mercato, sgretola la propria identità, si offre cultura come si offre detersivo alle massaie. I delusi, i disillusi, gli insoddisfatti, dovrebbero essere proprio i lettori, i quali galleggiano su un mare magnum di libri e di giornali che sommati non formano che un piccolo laghetto di cultura e informazione. Si ha paura dello scontro, delle controversie, della disapprovazione alla retorica, poiché la massa, i conformisti, i cosiddetti democratici, hanno sempre ragione: è la ragione del quattrino. Le ultime generazioni hanno subìto sulla propria pelle il conformismo tradizionale democratico: sono cresciute sotto l’ombrello del berlusconismo e degli altri partiti, i quali hanno sempre vissuto in virtù del finto nemico; hanno udito del pericolo rosso, del pericolo del comunismo, del pericolo della perdita della libertà che già non esisteva più. La libertà più importante che in democrazia è concessa è quella dell’opposizione, della critica, della contrapposizione delle idee che nessuno qui, in questo sudicio e scassato Paese ha. La nostra classe dirigente è lo specchio di un Paese che non sa pensare con la propria testa: non riesce ad andare oltre i propri inutili programmi, oltre le idee che non possiede, oltre la convinzione che solo il tempo possa risolvere un preciso problema. Solo elevando la coscienza del popolo si può elevare quella dei governanti: è il popolo che deve interessarsi a sé stesso, alla propria cultura, alle proprie buone tradizioni. La sua critica deve essere cosciente, costruttiva: per evitare di sputare sul piatto, dando a quel piatto soltanto sputo.

Stefano Poma

 

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E buona lettura.