Il 20 novembre 1972 ci lasciava un genio: ENNIO FLAIANO
By L'Universale / Novembre 20, 2021 / Nessun commento / «Il Caffè»
In occasione dell’anniversario della scomparsa di Ennio Flaiano, riproponiamo l’articolo del nostro redattore Vincenzo Mangione pubblicato nel n°12 del settimanale dedicato ai grandi giornalisti.
Definire Ennio Flaiano un giornalista è un po’ riduttivo: è stato un raffinato intellettuale poliedrico. Un eccellente sceneggiatore, scrittore, giornalista, umorista, critico cinematografico e drammaturgo. La sua genialità letteraria consisteva essenzialmente in brevi racconti, invenzioni satiriche, aforismi e notazioni di costume tratte dalla costante osservazione della realtà italiana e fondamento di quell’ininterrotto diario di un moderno moralista libero dagli obblighi di una forma letteraria definita quale quella del romanzo, del racconto lungo o della pièce teatrale.
Ennio Flaiano, ultimo di sette fratelli, nacque a Pescara il 5 marzo 1910 da Cetteo, commerciante e da Francesca Di Michele. Non ebbe un’infanzia molto felice: il padre era legato ad un’altra donna (con cui poi andò a vivere) e la madre, in una situazione familiare abbastanza compromessa, mandò il piccolo Ennio presso un’altra famiglia a Camerino e poi girovagò in vari collegi da Senigallia a Fermo e Chieti.
Bocciato agli esami di licenza nel 1927, l’anno successivo riuscì a ottenere il diploma del liceo artistico e si iscrisse alla facoltà di architettura che frequentò svogliatamente per un paio d’anni per poi abbandonare gli studi prima della laurea.
Possiamo individuare due letture, fatte dal piccolo Ennio intorno ai dodici anni, capaci di seminare il germe della scrittura nel suo terreno fertile: «Il corvo» di Edgar Allan Poe (di cui curò in seguito una traduzione nel 1935) e «Madame Bovary» di Gustave Flaubert. Questi libri presentano caratteri particolarmente congeniali alla sensibilità del futuro autore: l’invenzione fantastica, il senso del grottesco, il fondo disperato del primo, l’approccio alla realtà razionale, lucido, accuratissimo del secondo.
L’esordio nel giornalismo fu quanto meno casuale ma significativo: nel 1931 Mario Pannunzio gli propose sul settimanale “Oggi” una recensione al volume di racconti di Pier Antonio Quarantotti-Gambini, «I nostri simili». La sua vita professionale fu un continuo incontrarsi, collaborare, lasciarsi per poi ritrovarsi con due colossi come Leo Longanesi e Mario Pannunzio. Durante la collaborazione a “Occidente” di Armando Ghelardini recensì libri di Aldous Huxley, Sherwood Anderson, «Figli e amanti» di David Herbert Lawrence, ovvero una serie di titoli per quell’epoca decisamente controcorrente e poco gradite alla cultura di regime.
Fu critico teatrale e cinematografico su “Oggi” e poi su “Il Mondo” e su “L’Europeo” potendo contare su una competenza specifica e un’approfondita conoscenza tecnica dei meccanismi interni dei linguaggi cinematografico e teatrale. Fu uno sceneggiatore importante nel cinema italiano come ad esempio alcuni film popolari negli anni ’50 con Totò o altri capolavori come «La dolce vita» che ebbero tra gli sceneggiatori appunto Flaiano, Fellini e Pasolini. Questo approccio contribuì alla sviluppo della sua natura intellettuale dell’aforisma brillante, della divagazione fantasiosa, umoristica e umorale che prende spunto da un personaggio e dal suo interprete o da un argomento specifico dello spettacolo, ma anche dalla cornice che gli è intorno: il pubblico, cinema o teatro. Lui stesso si è sempre definito uno scrittore “pigro” ma questa è soltanto una maschera che Flaiano si divertiva abilmente a indossare.
La sua infanzia molto travagliata, costretto a girovagare sballottato da un collegio all’altro e poi la malattia di sua figlia Luisa, detta Lelè, afflitta, fin dai primi mesi di vita, da una grave forma di encefalopatia, incisero fortemente nell’animo e nello spirito di Flaiano e accentuarono il lato malinconico e pessimista del suo carattere tenuto volutamente nascosto dietro l’apparenza socievole e brillante della sua scrittura. Una scrittura, solo apparentemente superficiale, che, in realtà, nasconde uno stile ben determinato. In tutta la sua variegata attività praticò una scrittura molto curata, d’impianto classico, che nulla aveva della sciatteria di un certo neorealismo letterario del tempo preferendo esercitare la sua ricca fantasia e l’estro nella sostanza dei contenuti piuttosto che nell’elaborazione formale. Ad un più approfondito esame di tutta la sua produzione, anche quella inedita al momento della morte, dietro l’apparente frammentarietà, emerge la sostanziale omogeneità della sua ispirazione di moralista classico. La sua affermazione «Non sono nato per fare lo scrittore, né so scrivere. Scrivere è una fatica laboriosissima» va ovviamente contestualizzata e non può essere lasciata in sospeso, isolata, come spesso accade con le frasi di Flaiano citate come uno dei suoi aforismi. «Se uno si abitua ad architettare e scalettare una storia – dichiarò in un’intervista a Alighiero Chiusano – il guaio è che poi non resta né il tempo, né la voglia di scriverla, specie se si è pigri per natura come me» dilettandosi ancora una volta a ostentare la sua maschera in pubblico. «Il difetto principale dello scrittore italiano è quello di voler scrivere bene. Io cerco di scrivere male “apposta”, nel tentativo di farmi capire», spiegò a Gianni Rosati continuando a giocare amabilmente con la sua maschera, ma dimostrando che il suo principale obiettivo fosse quello di voler comunicare con il lettore.
Forse è proprio per favorire una comunicazione più chiara e diretta che Flaiano preferisce la forma breve. Non a caso scrisse un solo romanzo «Tempo di uccidere», pubblicato nel 1947 dalla casa editrice dell’amico Leo Longanesi, con cui ha vinto la prima edizione del “premio Strega”. Un testo che, apparso in pieno clima neorealista, si è fatto notare per il suo spirito innovativo e originale. Nonostante sia ambientato durante una guerra colonizzatrice nell’Africa Orientale, dove lo stesso Flaiano come ufficiale del Genio aveva preso parte, il libro presenta tratti onirici e fortemente surreali, tanto che si è parlato di “realismo allegorico”, “realismo dei sentimenti”, “surrealismo mistico e mitico”, di “romanzo profetico”. Racconta l’avventura di un uomo che si trova afflitto improvvisamente da un fastidioso mal di denti. Da questo evento, banale e comune, si innescano poi una serie di episodi inaspettati che lo portano a incontrare un’indigena con il turbante con la quale si unirà carnalmente e che ucciderà per errore scoprendo in seguito che era affetta da lebbra. Scatta quindi il terrore di aver contratto la malattia. L’uomo scappa e inizia una peregrinazione assurda che si concluderà con il suo ritorno in Italia. Sebbene scopra di non essere stato contagiato, persiste però il senso di angoscia e i rimorsi per le azioni compiute in guerra. «Forse non si tratta più di lebbra, si tratta di un male più sottile e invincibile ancora, quello che ci procuriamo quando l’esperienza ci porta cioè a scoprire quello che noi siamo veramente. Io credo che questo sia non soltanto drammatico, ma addirittura tragico». Potremo trovare nel romanzo un ventaglio di temi ripresi poi nelle sue successive opere come l’errore, l’inettitudine, la colpa, la malattia e, ancora una volta, il rapporto con la parola. «Io credo soltanto nella parola. Sognatore è un uomo con i piedi fortemente appoggiati sulle nuvole» lascia detto tra le pieghe del romanzo. «Credo che compito del poeta sia quello di far nuove le parole o di sfuggire le insidie del luogo comune» ci rivela in «Autobiografia del blu di Prussia». «Tempo di uccidere» è comunque un “unicum” nella produzione di Flaiano che si dedicherà solo a testi brevi, la scrittura cinematografica e a quella giornalistica. Una parola che fallisce sempre, perché incapace di comunicare davvero è un altro “leit motive”. Come nell’incontro tra Miriam e il tenente, in cui l’uomo, non conoscendo la lingua della ragazza, cerca disperatamente di farsi comprendere disegnando sul suo taccuino alcuni schizzi. Tutti i dialoghi tra i personaggi sono ricchi di sottintesi e malintesi, di bugie e contraddizioni. Ma è proprio da questo detto-non-detto incomprensibile scaturisce la tragedia e, insieme, la risata. Per sottolineare il concetto elaborò questa perla memorabile «La parola ferisce, la parola convince, la parola placa. Questo, per me, è il senso dello scrivere».
Nel racconto manca – o è comunque molto attenuata – l’abituale ironia amara e sferzante di Flaiano. Troviamo piuttosto un senso di estraniamento e di sottile angoscia e può essere incasellato nella narrativa esistenzialista vicina ad un Albert Camus di cui ripropone i temi dell’indifferenza morale dell’uomo di fronte all’assoluta casualità del suo destino, più ancora che di Jean-Paul Sartre. Per altri aspetti, per l’invenzione in perfetto equilibrio tra l’assurdo e l’onirico, il romanzo può essere avvicinato a Tommaso Landolfi o a Dino Buzzati, a riprova dell’esistenza nella nostra letteratura del secondo dopoguerra di una significativa corrente non oggettiva, non ideologicamente impegnata, piuttosto interessata agli aspetti simbolici e surreali del narrare. Diverte allo stesso modo un evento realmente accaduto allo scrittore, nel 1968, in occasione dell’uscita di una nuova edizione del romanzo confidato a Guido Bezzola: «Mi è successo un fatto abbastanza divertente e allegorico. L’editore, mandandomi le copie di una nuova edizione “club”, mi ha mandato delle copie con le pagine tutte bianche. Le ho accolte con vera gioia, tentato di servirmene come quaderni di appunti che non scriverò mai. O forse, bisogna vedere, nell’errore un disegno più perfido, il giudizio già segnato per un autore che si è fermato al primo romanzo non avendo più niente da dire».
Un’altra sua amara constatazione è che «può fare buoni libri anche il medico o il bottegaio nelle sue ore di libertà: non lo sceneggiatore, di regola, né il giornalista. Quando ci si rimette davanti alla pagina, dopo un po’ che si è lavorato come sceneggiatore, bisogna ridimensionarsi di dentro con enorme fatica».
Flaiano si dedicò alla stesura di racconti: «Una e una notte» (1959) che narra la storia di Graziano, aspirante scrittore, che trascorre la vita annoiato cercando di sedurre, senza molto successo, quante più donne possibili. Lavora come giornalista, ma il suo vero sogno è la letteratura. La notte immagina frasi e periodi eleganti che sopravvivono fino al dormiveglia: appena si trova davanti alla pagina bianca e si blocca irrimediabilmente. Nessuno sembra capirlo e, quel che è peggio, nessuno leggerà mai qualcosa di suo. Un giorno, però, accade qualcosa che potrebbe rivoluzionare la sua carriera: la giovane donna con cui ha passato la notte, lo rapisce e lo porta su un’astronave. Per l’ennesima volta, Graziano non riesce approfittare dell’incredibile occasione e, ritornato sulla Terra, scopre di essere stato licenziato. Anche Graziano, come il tenente di «Tempo di uccidere» è una figura inetta, incapace, eppure sottilmente divertente e ironica. In questo racconto breve è presente un’altra cifra caratteristica che rende la sua prosa ancora più esilarante e pungente: l’elemento grottesco e surreale. Flaiano ricorre spesso a figure retoriche come il paradosso, la battuta e l’iperbole che troveranno largo spazio anche ne «Il gioco e il massacro» (1970) e nel «Diario degli errori» pubblicato postumo nel 2002. Quest’ultima raccolta in particolare abbraccia tutti gli ultimi scritti dell’autore, gli appunti di lavoro e i frammenti rimasti sulla sua scrivania, con il suo irresistibile blend di illuminismo tenebroso e “pessimismo comico”. Spalmato lungo un ventennio, dal 1950 ai primi anni ’70, é costruito avendo negli occhi i luoghi e i volti di tanti viaggi (da Fregene ad Atene, da Parigi a Hong Kong, da Zurigo a New York a Bangkok), il “Diario” brulica di pensieri che sperimentano tutte le forme possibili del rapporto tra la mente e la realtà. Vi troviamo velenosi calembour concentrati come saggi, aforismi e massime perforanti e definitivi, microritratti di taglio, apologhi surreali e corrosivi, sequenze interrotte, tra incanto e sarcasmo: sugli hotel francesi, dove i mobili sono «come nella tavola che sul Larousse accompagna la voce: camera da letto», sulle vetrine olandesi accanto alle case secentesche, sui bambini-monaci thailandesi che ridono e bevono il tè, sulla sporcizia e le costruzioni nuovissime di Beirut, sulle «riscattabili» taxi-girl di Hong Kong, sui filippini che cantano senza tregua, e ovviamente sul «paesetto italiano» di giocatori al Totocalcio. L’irrefrenabile tendenza all’autodistruzione della specie umana pervade “Diario degli errori” come un malinconico leitmotiv. Ma la crudele esattezza della tassonomia è in Flaiano venata della pietas del moralista disilluso. Quella pietas che gli fa citare la sublime e disperata invocazione di Pierre ai massoni in “Guerra e pace”: «Occorre che l’uomo, governato dalle proprie sensazioni, scopra nella virtù attrattive sensuali». Si tratta per lo più di frasi spezzate e aforismi, che però non devono essere considerati come testi incompiuti, anzi sono proprio quelli che si configurano come più “autenticamente flaianei”, perché rappresentano a pieno il suo amore per l’essenzialità e la sua vocazione per la forma breve e per la satira. Probabilmente l’autore li avrebbe lasciati esattamente così: «Sono portato alla nota, allo schizzo giornaliero, alle cose che ‘dopo’ formeranno un volume. Quanto all’ironia, credo che mi liberi di tutto quello che mi fa fastidio, che mi opprime, che mi offende, che mi mette a disagio nella società». Nel 1954 pubblicò «Un marziano a Roma» che parla della stessa Roma degli anni ‘50 e inizi degli anni ’60 descritta da Pier Paolo Pasolini, ma la Roma di Flaiano è quella intellettuale e borghese, mentre Pasolini parla della Roma proletaria. Flaiano con surreale naturalezza narra l’atterraggio a Roma nei pressi di Villa Borghese di un marziano di nome Kunt. La cronaca si consuma in pochi giorni, dal 12 ottobre al 6 gennaio del 1954, descritti con una cronaca dallo stile asciutto e dal taglio giornalistico. La sua è la parabola della diversità derisa e beffeggiata di una società attratta dall’effimero e capace di concedere, con voracità consumistica, una notorietà improvvisa quanto aleatoria, per consumarla con il freddo e sintomatico cinismo tipicamente romano. Il marziano fa notizia, perché è la novità. In pochissimo tempo Kunt diviene una superstar, tutti lo conoscono e tutti vogliono incontrarlo come fosse una sorta di Messia: i cittadini romani si aspettano che risolva i loro problemi, si rivolgono a lui per ottenere la salvezza, la folla si esalta, gli arrivano dichiarazioni d’amore, e i media alimentano con talkshow televisivi, trasmissioni dedicate, titoloni, un clima di una fama improvvisa e apparentemente duratura. Kunt viene osannato e trasformato in simbolo. Ma viene egli stesso fagocitato, digerito e messo in disparte, condannato alla derisione e alla marginalità da una società indolente, distaccata e aliena da qualsiasi empatia, tanto indifferente da non riuscire a scuotersi per più di un istante. «Il peggio che può capitare a un genio è di essere compreso» ci lascia detto riferendosi apparentemente al marziano Kunt con una frase che richiama un altro principe del sarcasmo sferzante come Oscar Wilde («Si vive in un’epoca in cui solo gli ottusi sono presi sul serio, e io vivo nel terrore di non essere frainteso»). «Un marziano a Roma» di Flaiano è un’anticipazione profetica della attuale difficoltà a stupirsi, ad immaginare, a svincolarsi dalle catene del preconfezionato. È la prefigurazione di ogni sconvolgimento virtuale indotto che in prevalenza ci vediamo servire dai social network, dalla babele televisiva. Flaiano vuole far emergere il passaggio tra il grande stupore iniziale, l’interesse per questo arrivo fino al progressivo disinteresse, oblio e disprezzo del marziano che viene integrato e ignorato nella società. Indica il cinismo con cui Roma riesce a distruggere qualsiasi cosa. Kunt ha le sembianze di uno svedese che identifica il moderno: la modernità viene sempre dal nord.
Flaiano, nel 1970 fu colpito da un primo infarto che superò. Poi il 20 novembre 1972 ebbe un secondo nuovo attacco cardiaco che gli fu fatale.
Concludo con un ultimo suo aforisma amaro e sottile elaborato da Flaiano sotto la sua maschera: «Mi chiedevo se era quella la rassegnazione, quel vuoto aspettare, contando i giorni come i grani di un rosario, sapendo che non ci appartengono, ma sono giorni che pure dobbiamo vivere perché ci sembrano preferibili al nulla».
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