Vita di Settimio Severo

Milleottocentosettantaquattro anni fa, l’11 aprile 146, nasceva Settimio Severo, l’imperatore che prese il potere dopo la guerra civile romana, facendo della propria immagine un vero e proprio culto.

Lucius Septimius Severus nasce a Leptis Magna, l’11 aprile 146. Figlio di Publio Settimio Geta e di Fulvia Pia, appartenenti a una ricca famiglia equestre che, sebbene di origine italica, si era profondamente africanizzata e stava tornando soltanto allora, lentamente, alla cultura romana. Le sue sorelle non sapranno mai parlare bene il latino; in lui stesso, nonostante la fine cultura greca e latina, si continuerà a sentire la traccia della pronuncia africana. Oltre allo studio del greco e latino, si perfeziona a Roma sul diritto. Nel 172 è Questore in Sardegna, Tribuno e poi Pretore a Roma. Ormai lanciato in politica, nel 179 ottenne il governo della Siria e fu nominato governatore della Gallia Lugdunense. Severo visse in una fede cieca nell’astrologia e, nel 187 circa, sposa come seconda moglie – da cui avrà i figli Bassiano, poi detto Caracalla, e Geta – Giulia Domna, della casa sacerdotale di Emesa, imbevuta di teosofia orientale, donna bellissima e di grande intelligenza. Dopo l’uccisione di Giuliano, una commissione di cento senatori andò incontro al nuovo imperatore ad Interamna (Terni), sulla via Flaminia. Ricevuti gli omaggi della Curia, Settimio Severo fece mettere a morte gli assassini di Pertinace e ordinò che i Pretoriani, in abito di parata e senz’armi, gli andassero incontro e proseguì per Roma. Quando però i Pretoriani si trovarono davanti Settimio, vennero circondati e seppero che il loro corpo era stato sciolto con proibizione, pena la morte, di risiedere a meno di cento miglia da Roma. Settimio Severo entrò a Roma con la bellissima moglie, i senatori e le truppe, tra l’acclamazione popolare. Punì i seguaci di Giuliano, fece l’apoteosi di Pertinace e annunciò che avrebbe in suo onore innalzato un tempio. Giurò che non avrebbe condannato a morte nessun senatore e che anzi avrebbe ristabilito l’autorità del Senato.

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Intanto l’Egitto e l’Asia volevano Pescennio imperatore e molti principi dell’Asia gli avevano offerto il loro aiuto. Severo prese per cautela in ostaggio le famiglie dei Pretori e dei legati d’Asia e mosse col suo esercito verso l’Oriente. L’esercito di Pescennio, lasciato l’assedio nel 193, si ritirò oltre il Bosforo e l’Ellesponto, per impedire alle truppe romane il passaggio in Asia. Settimio Severo affidò il comando a Tiberio Claudio Candido, comandante delle legioni illiriche che, anziché affrontare il nemico tra Bosforo ed Ellesponto, sbarcò in Frigia, dove venne attaccato dal proconsole d’Asia Asellio Emiliano, che però perse la battaglia e la vita. Nel 194 le guerre ricominciarono. Pescennio Nigro con un numeroso esercito si era accampato nella pianura di Isso, e qui le truppe di Severo, sebbene inferiori di numero, lo sconfissero, lasciando sul campo ventimila morti nemici. Pescennio Nigro in fuga fu catturato ed ucciso: il suo capo su una picca fu inviato a Severo. Bisanzio non cedette neppure alla morte di Pescennio, e Settimio Severo ordinò di assediarla. Per legittimare il suo governo e prendersi il patrimonio di Commodo, nel 195 si dichiarò per postuma adozione figlio di Marco Aurelio, poi mosse battaglia e Nisibi ed altre città divennero colonie romane, forti guarnigioni furono poste nei territori tra l’Eufrate e il Tigri e Severo prese il titolo di Adiabenico. Si trovava nella Mesopotamia quando nel 196 Bisanzio si arrese per fame. Dopo la capitolazione, i magistrati e quanti avevano impugnato le armi furono uccisi, la città fu saccheggiata e messa sotto la giurisdizione di Perinto. L’Oriente era vinto. Clodio Albino con l’appoggio di parte del Senato aveva assunto il titolo di Augusto e con tre legioni era passato in Gallia formando un esercito di centocinquantamila soldati. Settimio Severo ordinò al Prefetto del pretorio di Roma di occupare i valichi delle Alpi e dal Senato fece dichiarare nemico pubblico Clodio Albino; lasciò l’Asia e mosse verso il nemico. Suo figlio Bassiano fu nominato Cesare e prese il nome di Marco Aurelio Antonino, il futuro Caracalla.

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Poiché il generale di Britannia, Clodio Albino, riportò diverse vittorie, il Senato passò dalla sua parte battendo moneta con l’immagine di Albino. Ma Severo guidò personalmente all’attacco le sue legioni coi suoi migliori generali; nell’aspra battaglia fu colpito e cadde da cavallo, ma alla fine ebbe la meglio. Clodio Albino si suicidò, Settimio Severo gli fece tagliare la testa e la spedì al Senato. Le città favorevoli ad Albino versarono fortissimi tributi, i capi furono puniti con la morte, altri esiliati e i loro beni confiscati. Settimio Severo fece ritorno a Roma. Riunito il Senato, dichiarò che preferiva la severità di Silla, di Mario e di Augusto alla clemenza di Pompeo e di Cesare. Tessè l’elogio di Commodo, rimproverando il Senato per la damnatio memoriae, ordinò che gli venisse fatta l’apoteosi e che gli fossero erette statue. Fece processare sessantaquattro senatori per aver parteggiato per Albino. Trentacinque vennero assolti e ventinove giustiziati: fra questi il Sulpiciano che aveva gareggiato con Giuliano per comprarsi l’impero, e Narcisso, che aveva soffocato Commodo, fu dato in pasto ai leoni. Nel 203 Severo commemorò il decimo anniversario del suo impero e il Senato decretò che ai piedi del Campidoglio fosse innalzato un arco trionfale all’imperatore «per avere ricostituito lo stato ed ingrandito l’impero del popolo romano». Si tratta del più antico arco a Roma, conservato, con colonne libere anziché addossate ai piloni. Un grande capolavoro di stile e bassorilievi che ancor oggi svetta nel Foro romano. Il forte spirito cosmopolitico di Severo ha la sua migliore espressione nei provvedimenti improntati a mitezza, per quanto concerne schiavi, donne, figli di condannati.

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Con l’immissione nel consiglio imperiale dei migliori giuristi del tempo (Papiniano, Ulpiano, Paolo) non solo egli tendeva a contrapporre al Senato l’autorità di questa piccola adunanza, ma nello stesso tempo aderiva al moto potente di riorganizzazione del diritto che quei giuristi rappresentavano. Verso il cristianesimo egli inizia la politica di riconoscimento delle comunità come collegia tenuiorum; e anche a lungo protesse intorno di sé cristiani. Per ragioni contingenti non ben chiare, ma connesse con l’esigenza di mantenere la compattezza dell’impero che contrasterà sempre nel secolo III gli spunti di politica filocristiana, cambiò atteggiamento: vietò la conversione al cristianesimo (come anche al giudaismo) e provocò molte persecuzioni locali, di cui si ha notizia specialmente per l’Egitto e l’Africa. Così descrisse Dione Cassio la giornata dell’imperatore: «Prima dell’alba egli era in piedi al lavoro: poi, passeggiando, trattava con i suoi consiglieri gli affari dello Stato. All’ora delle sedute, se non era giorno di festa, si recava al suo tribunale e attendeva con grande scrupolo al suo ufficio, accordando ai difensori tutto il tempo necessario e a noi senatori, che giudicavamo con lui, ampia libertà di giudizio. Rimaneva in tribunale fino al mezzogiorno, poi montava a cavallo, restandovi fin che poteva, indi si recava al bagno. Faceva un pasto abbondante solo o in compagnia dei figli; dopo il pranzo aveva l’usanza di riposare; dopo s’intratteneva passeggiando con dei letterati greci e latini. La sera prendeva un altro bagno e si sedeva poi a cena con i familiari o con gli amici». Così la sua corte fu un cenacolo di dotti, intorno alla bellissima imperatrice Giulia Domna, con la sorella Giulia Mesa.

Veronica Iorio

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