L’esplosione sopra il mare di Ustica

Quarant’anni fa, il 27 giugno 1980, un aereo in volo da Bologna a Palermo esplose nel cielo a nord di Ustica. Fu l’inizio di delle più gravi tragedie della storia italiana tra menzogne, morti misteriose e depistaggi.

Sono passati ormai quarant’anni da quel 27 giugno 1980, quando i cieli sopra le isole di Ponza e Ustica furono sconvolti da una delle più gravi tragedie della storia italiana. A bordo del Dc9 I-tagi dell’Itavia viaggiavano 77 persone più 4 membri dell’equipaggio, tutti scomparsi nel mare siciliano dopo essere partiti da Bologna qualche ora prima. Cosa accadde in quel lontano venerdì sera di inizio estate in molti sicuramente lo sanno, in molti sono stati testimoni della strage, ma hanno sempre taciuto sulle effettive responsabilità di questo o quel Paese in nome  della “ragion di Stato” o della sudditanza verso la Nato. Quel che è certo è che nei minuti precedenti la caduta qualcosa non ha funzionato oppure ha funzionato troppo bene, tanto che ancora oggi i nomi dei responsabili sono ignoti. E purtroppo molti di coloro che, negli anni, spinti dal rimorso, si decisero a parlare sono scomparsi, morti nelle più misteriose circostanza che vanno dagli incidenti stradali a quelli aerei o, addirittura, al suicidio per impiccagione in ginocchio…

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Meglio partire, nell’analisi di quei fatidici minuti e di questi anni, dai pochi fatti certi. Innanzitutto una sentenza concernente Ustica esiste (sentenza della sezione civile della Cassazione del 22 ottobre 2013). Essa riguarda gli eredi della compagnia aerea Itavia e riconosce al Ministero della Difesa l’«intenzionale attività di inquinamento probatorio, ripetuta, duratura nel tempo, svolta a livelli decisionali ed operativi, posta in essere da militari dell’Aeronautica militare sia presso le strutture di base, sia presso il vertice dell’Amministrazione» ai danni dell’azienda, senza però che tale strategia abbia accelerato il processo di fallimento della compagnia, nonostante nei mesi successivi subì una pesante campagna denigratoria (la prima ipotesi degli inquirenti fu il danno strutturale del velivolo) che sancì il ritiro della concessione di volo, con sommo gaudio dell’ex compagnia di bandiera Alitalia. La sentenza stabilisce, dunque, che dei depistaggi ai piani alti del Ministero e dell’esercito ci furono eccome, ma che essi non comportarono come diretta conseguenza il fallimento di Itavia. Un altro punto cardine da cui partire è la sentenza-ordinanza (passaggio del procedimento penale che oggi non esiste più e che non bisogna confondere con una sentenza di primo grado) del giudice Rosario Priore redatta nel 1999 e in cui si può leggere esplicitamente che il Dc9 sarebbe stato abbattuto durante una battaglia aerea avvenuta tra alcuni velivoli Nato e uno libico. Priore però non forniva prove per procedere per il reato di strage, bensì chiedeva di processare due generali dell’aeronautica per aver nascosto le prove che avrebbero confermato la sua tesi; i due alti ufficiali furono successivamente portati alla sbarra per depistaggio e alto tradimento, ma la sentenza definitiva nel processo sui depistaggi (partito nel 2000) assolse tutti gli imputati contrariamente a ciò che si afferma nella sentenza civile dello scorso ottobre.

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Ma se questi sono i punti saldi, sicuri, della vicenda ce ne sono molti altri emersi durante le indagini che lasciano tuttora le famiglie delle ottantuno vittime nell’incertezza sulla morte dei loro cari. Tali zone d’ombra riguardano, come detto in precedenza, gli effettivi responsabili della strage e chi si mosse per coprirli in qualunque modo possibile. In trentaquattro anni diversi magistrati si sono avvicendati nelle indagini e nessuno ha saputo svelare questo intricato mistero e ancora non si sa con precisione quanti aerei volassero attorno al Dc9, di quale nazionalità, chi o se sparò il missile e infine se fu un atto volontario di guerra oppure un fatale errore di confusione. Di certo c’è solo che fin da subito i servizi si mossero per confondere le acque in collaborazione anche con i corrispondenti stranieri.

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I depistaggi, reali o presunti, cominciarono l’indomani della strage quando alla redazione capitolina del Corriere della Sera arrivò una rivendicazione dei Nar, gruppo estremista di destra, in cui ammettevano che a bordo del volo esploso presso Ustica si trovava un loro camerata, tale Marco Affatigato, che avrebbe dovuto trasportare un ordigno esplosivo fino a Palermo. Il giudice Priore, nell’istruttoria già menzionata, descrive la telefonata come priva di fondamento ma con uno scopo ben preciso e cioè «distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dal sospetto di responsabilità militari nella distruzione dell’aereo»; aspetto confermato dalla telefonata dello stesso Affatigato alla propria madre per rassicurarla della sua assenza sul velivolo caduto e dai rapporti che l’ex terrorista dei Nuclei Armati Rivoluzionari con i servizi segreti italiani (Sismi) e francesi (Sdece). Proprio a causa di tali rapporti pendeva sulla sua testa una taglia posta dai Nar a causa del sospetto che fosse appunto un informatore delle forze dell’ordine (Affatigato è stato pure a libro paga CIA); per tale motivo egli all’epoca si trovava latitante a Nizza sotto la stretta protezione dei francesi. E francese sembrerebbe, dunque, anche la mano organizzativa della telefonata bufala in coordinamento con i servizi italiani, e forse non sarebbe mai stata scoperta se solo Affatigato non fosse scappato dopo aver intuito che la sua copertura era saltata, appena prima che il suo corpo fosse fatto realmente rinvenire tra quello degli altri  passeggeri. Per accertare le responsabilità di questo primo sviamento sono lapidarie le parole sempre di Priore: «Solo qualche tempo dopo fu possibile comprendere che l’operazione, con ogni probabilità, era stata condotta dal SISMI al fine di disorientare l’opinione pubblica e mascherare la delittuosa imprudenza dei reparti impiegati in una esercitazione militare». Perché lavorare così alacremente per coprire il misfatto lo spiega molto ben la relazione finale della Commissione Parlamentare Stragi (inverno 1989 – 1990): «Tuttavia ammettere la verità avrebbe significato mettere in moto movimenti pacifisti ed il governo italiano non avrebbe potuto facilmente accettare la installazione dei missili a Comiso. Nell’ambito dell’alleanza occidentale si decise quindi di nascondere in tutti i modi la verità, distruggendo ogni possibile prova e mettendo in atto varie forme di depistaggio».

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Ma in quell’estate tormentata, accadde qualcosa di ancora più grosso e spaventoso, a poco più di un mese dall’esplosione dell’I-tigi un’altra bomba deflagrò nell’estate del Bel Paese. Il 2 agosto, infatti, a Bologna esplose la bomba che alla stazione fece 85 morti e che Luigi Cipriani (parlamentare di Democrazia Proletaria e membro della Commissione Stragi) definì come un «tentativo riuscito di cancellare dalla città, dall’attenzione della stampa, dal dibattito politico, dall’opera dei magistrati la strage di Ustica» dato che bolognesi erano la maggioranza delle vittime e Bologna città rossa per antonomasia in cui la pista terroristica fascista poteva fare facilmente breccia, cosa che puntualmente avvenne.

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Quella di Ustica non è solo una storia di coperture ad alto livello, ma è anche una storia che qualche verità l’ha prodotta. Anzi, forse le verità sono anche troppe dato che, in assenza di una ufficiale, ognuno ha prodotto le proprie, dai tecnici ai giornalisti, dal militare al cittadino comune, ognuno si è fatto una propria idea stabilendo quale fosse la propria verità per quelle ottantuno vittime. C’è una verità giudiziaria a cui si è già accennato e che non riconosce veri colpevoli nella strage ma ne riconosce i depistaggi a favore del silenzio e che esclude l’Itavia da ogni colpa se non quella di non aver saputo amministrare le proprie finanze. C’è una verità tecnica che in pochi conoscono e che a sua volta è suddivisa tra l’ipotesi della bomba a bordo e quella del missile lanciato contro il Dc9 volontariamente o per errore. Infine c’è pure una verità diffusa che negli anni ha occupato la mente di scrittori, registi, giornalisti e cittadini comuni che nella speranza di trovare un colpevole hanno ipotizzato uno scenario di guerra nei nostri cieli. Oggi queste tre verità attendono ancora una conferma o una sonora smentita.

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Una prima conferma, anche se non suffragata da nessuna inchiesta giudiziaria, è stata pubblicata l’11 febbraio 1992 dal quotidiano L’Ora. Nino Tilotta intervista l’ex maresciallo G. S. (colui che effettuò la famosa telefonata alla trasmissione di Corrado Augias Telefono Giallo) che spiega la verità su quel che successe in quella sera di giugno del 1980. All’epoca dei fatti egli era addetto al controllo del traffico aereo sui confini dei Paesi alleati, in servizio allo SHAPE (Supreme Headquarteers Allied Powers Europe) ovvero il quartiere generale Nato a pochi chilometri da Bruxelles. Per la seconda volta ammise di aver visto cosa accadde nei cieli siciliani e cioè quel che avvenne dopo che il satellite americano, come molto probabilmente quello sovietico, rivelò il decollo dalla Libia di un aereo diretto nell’area mediterranea. All’avvistamento scattò la procedura d’avvertimento per l’aereo nemico e, al suo ennesimo rifiuto di ritirarsi, la procedura per abbatterlo. È a questo punto che qualcosa va storto e succede l’irreparabile. Il MIG23 libico, forse nel tentativo di fuggire ai due Tomcats americani, si nasconde sulla rotta del Dc9 o nelle sue immediate vicinanze; la conseguenza è facilmente intuibile: il missile sparato da uno dei tre velivoli coinvolti si aggancia alla scia dell’aereo civile facendolo saltare in aria. In seconda battuta però gli americani riescono ad abbattere l’apparecchio libico che sarà ritrovato giorni dopo sui monti della Sila (lasciando comunque molte perplessità sull’effettiva data di morte del pilota).

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L’ex maresciallo in pensione conferma in un colpo sia la teoria della guerra aerea che quella del fatale errore, sollevando da ogni responsabilità l’aeronautica italiana perché di tali movimenti non poteva saperne nulla come anche il Governo Italiano dato che «l’Italia ha fatto un patto di alleanza che vieta a tutti i membri di divulgare informazioni militari. Non poteva venir meno a questo patto. Si è limitata a dire: “L’Aereonautica militare in questa faccenda non c’entra”. In fondo è la verità. Almeno parte della verità. Solo se venisse sciolto il segreto militare che vincola le forze armate NATO, sapremmo esattamente cos’è accaduto. Se togliessero questo segreto, vedrebbe quanti militari sarebbero felici di togliersi questa “spina dal cuore”, come l’ha definita Cossiga».

Andrea Tagliaferri

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