Gli americani a Tokio (seconda parte)

Il fallimento dell’incontro e il harakiri degli interpreti giapponesi davanti al comandante americano Perry.

Partito il comandante Perry per Macao, scortato delle sue quattro grandi navi da guerra, i giapponesi s’interrogavano sul loro futuro. Le grandi navi, se hanno recato spavento, hanno anche fatto comprendere come al di là del mare ci fosse qualcosa di nuovo, a cui era impossibile imporsi. La lotta fra i liberali e i conservatori giapponesi, che già cominciava a sorgere debolmente, si aprì rafforzata dagli ultimi imprevisti avvenimenti. Nel frattempo, moriva lo Shogun Eyeyoshi e il figlio Iesada prese il suo posto, tredicesimo dei Tokugawa ed ultimo Shogun del Giappone. Costui parve comprendere il bisogno di aprirsi a una nuova politica, e già discuteva certe possibili riforme. La notizia del ritorno degli americani, nel frattempo, non tardò ad arrivare. I preparativi legislativi vennero interrotti e l’Impero piombò nella confusione. Inutilmente, i giapponesi tentarono di differire il momento delle trattative; ormai la discussione non era più che una formalità diplomatica.

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L’otto marzo del 1854, all’alba, la flotta americana era pronta. A bordo regnava una certa eccitazione: era giunto il giorno dello sbarco. Il comandante fu ricevuto in pompa magna da un gruppo di nobili, e, dopo molte cerimonie, il commissario Hayashi gli porse la risposta alla lettera del presidente. La risposta era nebulosa e in termini evasivi. I giapponesi volevano che gli americani se ne andassero lasciando le cose come erano state fino ad allora, mentre tutta la baia di Tokyo era in agitazione per lo sbarco delle merci straniere e gli americani costruivano una ferrovia in miniatura con locomotiva, carri e vagoni. Il popolo giapponese considerava il treno un prodotto del demonio, nefasto, ma i nobili furono subito vogliosi di sperimentare quella novità. Uno dopo l’altro, salirono sul piccolo treno, e, con gli occhi chiusi, si lasciarono portare alla velocità di venti chilometri orari in giro per la rotaia circolare. Venne costruito anche un telegrafo e inviati dispacci. Altri doni vennero offerti dagli americani, come macchine agricole, armi da fuoco, orologi e profumi. I giapponesi cominciarono fin da quello sbarco a prendere note e a disegnare gli oggetti sui loro taccuini.

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Il quattro aprile, la grande nave Saratoga partì per Washington con il trattato per la ratificazione del Congresso e la firma del presidente. Gli americani incaricati furono mandati ad esplorare il nuovo porto aperto dal trattato, quello di Shimoda. Qualche giorno dopo, il nove aprile, vennero iniziati i preparativi per lasciare la baia. Da esploratore e viaggiatore curioso, il comandante Perry era deciso a gettare uno sguardo sulla sacra città di Tokyo, che allora si chiamava Yeddo. Appena il suo proposito fu palese, gli interpreti giapponesi salirono a bordo della sua nave. I loro volti rivelavano un dolore straziante, profondo. Erano tutti nobili della casta militare e sapevano qual era il loro dovere nel caso non riuscissero ad impedire ai barbari di violare le sacre acque davanti alla città. Infatti, come la nave ammiraglia si avvicinava ai porti di Yeddo, gli interpreti si prepararono a fare harakiri in presenza dello stupefatto Perry. Le navi fecero allora macchina indietro; e questa volta salparono definitivamente verso l’alto mare. Così finirono i negoziati che dovevano sconvolgere le sorti di tutto l’Oriente; quattro anni più tardi, il trattato si rivelò lo strumento che portò alla morte dello Shogunato. Esso preparò la via ad altri simili trattati con altre potenze europee, e diede inizio alla fine della chiusura giapponese verso il mondo occidentale e il suo libero mercato.

Federica Bellagamba

Qui, la prima parte. 

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