Emilio Lussu dalla Grande Guerra all’avvento del fascismo

Centotrent’anni fa anni fa, il 4 dicembre 1890, ad Armungia, in Sardegna, nasceva il grande scrittore e politico Emilio Lussu. Dopo la Grande Guerra fondò il Partito Sardo d’Azione che della valorizzazione del contributo dei sardi alla guerra, e alla vittoria, pose le basi per un nuovo approccio alla questione sarda in ambito nazionale. 

Il colpo di pistola di Gavrilo Princip che il 28 giugno 1914 assassinò l’Arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono austriaco, pose fine all’Ottocento, alla Belle Époque, a quel lungo periodo di pace che in Europa durava dal lontano 1870. La guerra era il pretesto col quale tutti cercavano di fare una propria rivoluzione: socialisti, nazionalisti, repubblicani, guarderanno al fango e al sangue delle trincee come l’occasione per igienizzare il vecchio mondo, come la possibilità di risolvere definitivamente vecchi conflitti secolari. Il mondo sarà diviso in due per quattro lunghi anni e i sogni, le speranze, il futuro di un’intera generazione era rimasto impigliato sul filo spinato delle trincee. Emilio Lussu, comandante sardo pluridecorato per la partecipazione alla prima guerra mondiale scriverà nel suo libro Un anno sull’altipiano: “Uccidersi senza conoscersi, senza neppure vedersi! È orribile! È per questo che ci ubriachiamo tutti, da una parte e dall’altra. L’anima del combattente di questa guerra è l’alcool. Il primo motore è l’alcool. Perciò i soldati, nella loro infinita sapienza, lo chiamano benzina”.

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Lussu fece appena in tempo a terminare gli studi universitari prima della mobilitazione generale e fu protagonista della dura battaglia politica che si combatterà in Italia nel dopoguerra, dopo che nel novembre del ’18 sui giornali apparirà finalmente la parola pace, una parola costata otto milioni di morti. Intanto il 23 marzo del ’19, nell’indifferenza generale, Mussolini fonda a Milano i Fasci di combattimento. Ne faranno parte quei combattenti che, finita la guerra, faranno fatica a concepire quel nuovo mondo democratico nato dalle ceneri della Grande Guerra, privo di un nemico da combattere. Erano anni difficili per la fragile democrazia italiana e l’inconsistenza politica delle forze liberali intanto bloccavano il Paese: il 4 luglio del ’21 cadde il governo Giolitti, il 26 febbraio del ’22 quello presieduto da Ivanoe Bonomi e sei mesi dopo venne sfiduciato il giolittiano Luigi Facta. Nessuno dei vecchi politici liberali sembrava in grado di mettere d’accordo tutte le frammentate forze politiche parlamentari e gli italiani stavano a guardare, perplessi. “Tutti invocano, come nei momenti di estremo pericolo, il provvidenziale intervento di un Uomo, con l’U maiuscola, che sappia finalmente riportare il Paese nell’ordine e nella legalità”, scriverà Giustino Fortunato. Il 10 agosto Facta riotteneva la fiducia alla Camera in un clima di profonda incertezza. Il 24 ottobre, a Napoli, si apriva il congresso fascista. Michele Bianchi, quadrumviro, gridava agli squadristi: “Insomma, fascisti, a Napoli ci piove, che ci state a fare?”. La folla rispondeva: “Tutti a Roma”.

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La marcia era cominciata e Roma era preoccupata. Cosa accadrà? Roma è la città del Re, della burocrazia, dell’alta borghesia, dell’esercito. Roma ha paura e i primi soldati nella serata del 27 vengono dislocati alle porte della città. Facta propose al Re di firmare lo stato d’assedio ma il Re prese tempo. Che avrebbe fatto l’esercito dato che più volte, negli ultimi tempi, era stato più vicino ai fascisti che alla Corona? Il Re interpellò numerose personalità militari e la risposta che ricevette dal generale della vittoria, Armando Diaz, sarà decisiva: “Maresciallo, l’esercito sarà fedele?”. “Maestà”, rispose Diaz, “l’esercito farà il suo dovere, però sarebbe bene non metterlo alla prova”. Lussu, che a quell’epoca era dirigente del Partito Sardo d’Azione, nel suo libro Marcia su Roma e dintorni, un classico dell’interpretazione antifascista, sottolineò gli aspetti comici che emersero quel 28 ottobre del ’22. Scrisse: “Che era questa benedetta marcia su Roma? Le idee non erano chiare. La stampa pressoché unanime spiegava trattarsi di una marcia ideale: un’espressione figurata che significava ascesa spirituale, conquista morale. Lo stesso Mussolini non aveva idee molto precise. Egli in una intervista celebre aveva detto: “Questa marcia su Roma è strategicamente possibile attraverso le tre grandi direzioni: costiera adriatica, costiera tirrenica e valle del Tevere”. Il che come ognuno può controllare sulla carta è un bel pasticcio. Ma per quanto questo piano strategico fosse piuttosto confuso, chiariva tuttavia trattarsi di una vera e propria marcia, da farsi con le gambe. “Nessuno mi toglie dalla testa”, disse l’on. Facta, “che l’espressione marcia su Roma va interpretata come una figura retorica”. Che fece l’on. Facta? In un primo tempo accolse con tutti i convenevoli gli ambasciatori del “Duce” che gli offrivano guerra o pace. Li trattò con squisite maniere, cercando di temporeggiare. Offrì persino strette di mano, sigari e pranzi. Quando s’accorse che tutto era vano, e seppe che la marcia su Roma era iniziata, prese il coraggio a due mani. Che face mai? Presentò al re le dimissioni del suo gabinetto”.

Stefano Poma

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