Le scuole e le biblioteche nell’Alto Medioevo del regno visigoto

L’istruzione era circoscritta a una ristretta élite sociale, mentre le biblioteche conservavano autori cristiani e pagani come Plinio, Sallustio e Seneca.

Nel regno visigoto, la preparazione intellettuale era circoscritta a una ristretta elite sociale costituita da alti funzionari, membri dell’aristocrazia e componenti del clero contrapposti alla stragrande maggioranza della popolazione rurale che, a eccezione di contesti isolati, non sapeva né leggere né scrivere. Le fonti, in relazione agli istituti formativi presenti nello stato visigoto, sembrano evidenziare l’assenza di scuole municipali funzionali a una sorta di alfabetizzazione primaria. Sappiamo solo dell’esistenza di percorsi educativi personalizzati, in contesti didattici chiusi, in cui alcune famiglie aristocratiche affidavano i propri figli a magistri domestici. Gli unici percorsi di apprendimento strutturati erano collegati all’organizzazione ecclesiastica, dividendosi in scuole presbiteriali, episcopali e monacali. Le scuole presbiteriali, destinate alla formazione di giovani chierici (poi destinati alle varie chiese rurali del territorio) e implicitamente finalizzate a rinnovare i processi di evangelizzazione del territorio, si basavano sull’alfabetizzazione primaria e sull’insegnamento della grammatica, integrate da precetti teologici e dalla lettura della Bibbia. È interessante notare come nel Concilio di Mérida del 666 si esortano i parroci a formare alcuni servi della chiesa, per poi ordinarli come sacerdoti funzionalmente all’esigenza di celebrare dignitosamente il culto.

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Le scuole episcopali, contrariamente a quelle parrocchiali, implicavano un livello formativo certamente più complesso e furono istituite durante il II Concilio di Toledo del 527, con un carattere seminariale. Gli alunni delle scuole episcopali erano fanciulli i cui genitori decidevano per la loro futura carriera ecclesiastica. I discenti vivevano in contesti comunitari sotto la tutela di un preposto e con la supervisione di un vescovo. Al compimento dei diciotto anni il giovane studente poteva decidere di abbandonare la comunità ecclesiastica o di essere integrato in una comunità superiore di chierici. I percorsi formativi implicavano l’alfabetizzazione primaria (leggere, scrivere), definita da Isidoro di Siviglia litteratio, poi successivamente integrata dallo studio delle sette arti liberali divise nel trivium (grammatica, retorica e logica) e nel quadrivium (matematica, geometria, musica, astronomia). L’VIII Concilio di Toledo (653)precisò inoltre come gli studenti delle scuole episcopali dovessero conoscere perfettamente salterio, inni e canti. La metodologia di insegnamento si basava essenzialmente sui procedimenti didattici desunti dalla tradizione delle scuole romane di retorica e sul sincretismo di lezioni collettive e approfondimenti individuali. Come osserva Orlandis, alla fine del VII secolo, l’Ars Grammaticadi Giuliano di Toledo poté rappresentare un testo fondamentaleper gli studi grammaticali, mentre la formazione teologico-moraleera affrontata attraverso i tre libri di Sententiae di Isidoro di Siviglia.

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Per quanto attiene alle scuole monastiche sorte nel regno visigoto, il cui percorso formativo fu caratterizzante per molti vescovi, si svilupparono seguendo sostanzialmente le direttive già delineate da San Giovanni Cassiano (360-435), autore delle Istituzioni cenobitiche, e i precetti presenti nell’opera di San Benedetto da Norcia (480-547), basato sull’Ora et labora. La struttura delle scuole monastiche implicava la presenza di due livelli educativi: uno esterno che permetteva una formazione gratuita per chierici e laici, l’altro interno (ex natura sua), per la formazione dei monaci. Quest’ultimo implicava una alfabetizzazione primaria fino ai sette anni, successivamente arricchita dallo studio del salterio e di letture bibliche. La formazione superiore era integrata da studi canonici, liturgici e teologici, con un’attenzione particolare data alla grammatica, alla lettura e alla scrittura, alla musica e alla matematica.

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In questa ottica, come ha osservato il Riché, i grandi monasteri nelle biblioteche dovevano contenere numerosi testi classici, basilari per la formazione culturale dei monaci. In particolare Sant’Isidoro di Siviglia ci informa, nella regola del monastero Honorianense, che i monaci dovevano dedicare tre ore giornaliere alla lettura di testi, integrate da conferenze quotidiane in cui l’abate esplicava, ai fratelli stessi, passi particolarmente complessi incontrati nei testi. La vita monastica era coordinata e supervisionata dall’abate, responsabile dei monaci e della scuola del monastero sia per la formazione interna sia per quella esterna. Come si è accennato in precedenza, nello Stato visigoto pare non esistessero scuole di formazione prettamente laiche destinante alla preparazione umanistica, sebbene il regnum toledano annoverasse personalità intellettuali di grande spessore come il conte Bulgar, governatore della provincia Narbonensis, o il re Sisebuto autore di opere letterarie, implicanti inoltre una buona conoscenza del latino. È possibile ipotizzare che i membri dell’aristocrazia, legati alla corte, si formassero in istituzioni pedagogiche all’interno delle scuole palatine, caratterizzate da percorsi formativi derivati dalla tradizione romana, ossia basati su una alfabetizzazione di base poi potenziata dallo studio delle arti liberali classiche del trivium e del quadrivium.

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La finalità delle scuole palatine era inoltre quella di garantire una robusta preparazione politico amministrativa e giuridica per le future figure funzionarie dello Stato. La formazione intellettuale avviata all’interno dell’Aula Regia prevedeva la conoscenza in particolare delle Institutionum disciplinae (trattato di pedagogia dell’VIII secolo, attribuito dal Fontaine a Isidoro di Siviglia), le normative dei concili e precetti desunti dalla Lex Visigothorum. Nel poema di Venanzio Fortunato dedicato a Gailswintha, figlia del re Atanagildo, si descrive appunto la principessa attorniata dai compagni di studio e, in una ulteriore fonte tarda desunta dal cronista Ximenes Rada (1170-1247), si evidenzia che i re visigoti erano abituati a educare nell’ambito della corte nobili e principesse.

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Nel regno visigoto dovevano certamente essere attive delle biblioteche, come i ricordati esempi di Mérida e Siviglia. Nella stessa urbs regia di Toledo dovevano, forse, esistere varie biblioteche, tra cui una specializzata nei libri giuridici come base per la messa a punto e la revisione della Lex Visigothorum. Le biblioteche, oltre ai meglio rappresentati autori cristiani, custodivano le opere di scrittori pagani come Persio, Plinio, Lucano, Sallustio, Seneca, Claudiano, anche se in forma probabilmente abbreviata. La già ricordata biblioteca di Mérida, presso la basilica di Sant’Eulalia, conservava i Dialoghi di Gregorio Magno, la Vita Desideri di Sisebuto, la Vita Martini e la Chronica di Sulpicio Severo, opere di Prudenzio e opere agiografiche. In particolare per opere di carattere agiografico, come per esempio la Vitas sanctorum patrum emeretensium, sappiamo che erano attive letture pubbliche attraverso l’adozione del sermo humilis per sopperire all’analfabetismo diffuso, utilizzando quindi un linguaggio contraddistinto dalla immediatezza comunicativa e dalla intenzionalità fortemente catechetica.

Fabrizio Sanna

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