Un marziano a Roma

Ennio Flaiano e quella straordinaria e disincantata generazione degli intellettuali vissuti negli anni Cinquanta.

Ennio Flaiano non è stato solo lo scrittore, l’umorista, lo sceneggiatore, il giornalista per non dire dell’aforista che tutti citano spesso anche a sproposito. No, non era un collezionista di battute spiritose e calembour nel modo in cui, al pari di Leo Longanesi, i più tendono a raffigurarlo. Meglio di altri Flaiano ha riassunto il sentimento comune dei tanti come lui negli anni Cinquanta: «La nostra generazione l’ha preso in culo. I preti da una parte, i comunisti dall’altra». Una frase breve che probabilmente sarebbe piaciuta e sarebbe stata condivisa, da Maccari e da Longanesi, da Pannunzio e da Montanelli… Non è un caso che l’altro giorno sul Corriere della Sera appariva una foto in cui lui sedeva su un tavolo proprio tra Montanelli e Pannunzio. C’era nel profondo dell’intellettuale pescarese una disincanto che era anche un preciso giudizio politico. Come tanti di quei provinciali che poi racconterà nella sceneggiatura de I vitelloni, Ennio approderà giovanissimo a Roma.

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L’ironia della storia lo farà arrivare il 27 ottobre del 1922 nella capitale, dove avrebbe frequentato le scuole fino all’università, in un treno traboccante di squadristi. Tanto che nell’Antipatico 1960, l’almanacco che pubblicava l’editore Vallecchi, pubblicherà una sua poesia rivolgendola al suo amico Maccari e a tutta la sua generazione: «Mino, ricordi la Marcia su Roma? / Io avevo dodici anni, tu ventuno. / Io in collegio tornavo e tu a Roma / guidavi la squadraccia dei Trentuno. / Mino, ricordi? Alle porte di Roma / ci salutammo. / Avevi il gagliardetto / il teschio bianco, il pugnale tra i denti. / Io m’ero tolto entusiasta il berretto / ricordi? Tu eri perfetto / nella divisa di bel capitano». Poi, dopo gli studi, gli anni della boheme intellettuale che gravitava tra il Caffè Aragno e Cesaretto a via della Croce, accanto a Cardarelli e (ancora) Maccari, Soldati e Steno, Pannunzio e Benedetti, Fellini e Zeglio. Li chiamavano gli “intellettuali da caffè”: «Questa accusa mi è stata rivolta spesso – ricorderà lo stesso Flaiano – senza turbarmi troppo… le più belle serate le ho trascorse per anni nei caffè con persone la cui amicizia era già un giudizio: Cardarelli, Barilli e Longanesi. Mi è rimasto il debole di preferire il caffè al salotto, al club, all’anticamera…».

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Leonardo Sciascia definirà questa generazione di intellettuali come gli «scrittori trentenni che guardavano altrove per guardare meglio dentro». Fatto sta che Ennio ricorderà: «Pannunzio e Longanesi ebbero un’importanza decisiva perché mi fornirono i mezzi per mettermi a scrivere. Aggiungerò, di cose di cui non sapevo assolutamente niente…». Flaiano infatti cominciò a scrivere su Omnibus. Poi, nel 1943, partecipa alla sceneggiatura del film di Leo Longanesi, Dieci minuti di vita con un cast di primo piano: Assia Noris, Alida Valli, Clara Calamai, Gino Cervi e Vittorio De Sica. Le riprese del film, avviate negli studi Titanus, dovettero però interrompersi l’8 settembre e lì per tutti si apre un’altra storia. Nel dopoguerra Flaiano, che si occupa di cinema a tempo pieno, si ritrova ancora con Longanesi, che è partito con l’avventura della casa editrice. E Leo rinnova a Ennio un vecchio invito a scrivere un romanzo. Ricorderà Flaiano: «Dovevo rivederlo a Milano, nel duro inverno del ’46. Passeggiavamo cortesemente, una sera di dicembre, quando si fermò e mi disse: “Mi scrive un romanzo per i primi di marzo?”». A questo invito seguì una lettera di Longanesi, del 27 febbraio dell’anno successivo: «Il termine massimo che le posso concedere è di una settimana o poco più, dovrebbe farmi avere qui a Milano il 12 marzo perché il 13 abbiamo il turno preso il linotipista…». Nel marzo del ’47 Flaiano consegna Tempo di uccidere: vincerà il primo Premio Strega. Racconterà Fellini: «Quel rompicoglioni di Flaiano è proprio un rompicoglioni! Le sue cose da scrittore… e non lo smuovi… è pigro, è pigro. Scrive solo quando è costretto, quando ha bisogno di soldi. Ma quando avrebbe vinto il Premio Strega se Longanesi non lo avesse preso per finire il libro? “O scrivi o tiri le cinghia!”. E ha scritto!».

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Nel ’49 Flaiano viene quindi chiamato da Pannunzio come caporedattore de Il Mondo… Ci rimane tre anni, prima di dedicarsi solo al cinema. Qui ritrova il suo vecchio amico e sodale Mino Maccari, l’ex direttore dello strapaesano Il Selvaggio che disegnava le vignette. E intanto nell’aprile del ’54 Leo Longanesi, che continuava a scriversi con Flaiano, gli ricorda in una lettera gli articoli promessi per il suo Borghese e aggiunge: «Da I vitelloni non si potrebbe cavar fuori un libro? Il tema è buono e il libro si venderebbe molto. «Quando si mette a scrivere il secondo romanzo? Perché non manda nulla al Borghese?», si chiede tra sé e sé Ennio. Il fatto è che è troppo preso dal cinema e anziché scrivere per la rivista di Longanesi, come vorrebbe, deve partecipare alla sceneggiatura del film a episodi Villa Borghese… Quando nel ’57 Longanesi muore, Flaiano scrive subito a Maccari: «Caro Mino, ero a Fregene quando ho saputo dai giornali la fine di Longanesi e ho pensato a te ch’eri suo vero amico. La sua morte è stata un dolore. E così, ogni giorno che passa scivoliamo sempre più verso la zona dell’ombra, confortati solo dalla volgarità del mondo che avanza, e che non condividiamo più…». Era questo Flaiano, anche quando diceva: «La mia vocazione era quella di non identificarmi. La mia generazione che ha vissuto il fascismo e l’arco democratico è assai curiosa: l’idea della vita con cui siamo nati noi abbiamo dovuto cambiarla in ogni momento».

Luciano Lanna

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