Enrico Mattei e il petrolio iracheno (quarta parte)

I tecnici italiani a Baghdad.

Dichiarò Mattei nel luglio di quell’anno: “Abbiamo la nostra esperienza. Abbiamo a disposizione migliaia di ingegneri, geologi, chimici e altri specialisti. Attualmente ci troviamo nella stessa situazione delle grandi compagnie petrolifere”. L’Eni era già presente in Iraq attraverso la consociata Saipem, che nel gennaio 1961 aveva ottenuto l’incarico per la costruzione di un gasdotto che doveva collegare i giacimenti di Rumeila con la centrale elettrica di Bassora e con un’industria chimica che doveva sorgere alla periferia della stessa città, finanziata attraverso gli accordi di assistenza tecnica con l’Unione Sovietica. L’anno precedente una missione economica irachena aveva visitato gli stabilimenti Eni a Milano e della Nuova Pignone a Firenze, allo scopo di valutare effettive possibilità di cooperazione. Risaliva invece al 1957 la prima missione in Iraq di un rappresentante del gruppo Eni: nella primavera di quell’anno, infatti, l’ingegnere Italo Ragni, direttore generale della Snamprogetti, si era recato a Baghdad con alcuni suoi collaboratori per verificare la possibilità di prendere parte alla realizzazione di alcuni oleodotti. Ma la mancanza di osservatori ufficiali in loco, in grado di segnalare tempestivamente l’esistenza di nuove opportunità di lavoro, la scarsa collaborazione da parte dei diplomatici italiani e la condizione di perdurante predominio da parte delle majors avevano portato al fallimento di quel primo tentativo.

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Il 7 luglio 1961 la stampa britannica diffuse la notizia, proveniente da fonti italiane ben informate, che l’Eni aveva ricevuto un’ufficiale  richiesta dal governo iracheno, riguardo alla sua capacità e disponibilità a sostituire i tecnici non iracheni dell’Ipc nelle varie fasi dell’estrazione del petrolio e nel mantenimento dell’oleodotto di Kirkuk a Tripoli, sulla costa del Libano. Secondo gli esperti del settore interpellati in quei giorni dai giornalisti, la compagnia italiana sarebbe stata teoricamente la sola in grado di far funzionare efficacemente l’industria petrolifera del Paese arabo, oltre alle multinazionali occidentali e ai tecnici sovietici. Lo stesso 7 luglio la dirigenza dell’Eni si affrettò a informare gli organi di stampa che non vi era stata alcuna richiesta italiana avente per oggetto l’assegnazione di concessioni petrolifere in Iraq (ma non vennero smentiti i contatti sull’eventuale disponibilità dell’Eni, nel caso che le concessioni fino ad allora detenute dalla Ipc si fossero rese disponibili). I responsabili delle compagnie aglo-americane si dichiararono comunque certi che i loro governi non avrebbero esitato a intervenire presso le massime autorità italiane, nel caso che i rifornimenti petroliferi dell’Europa occidentale venissero messi in pericolo da avventate iniziative di chicchessia. Le autorità italiane informarono i governi di aver chiesto al presidente della maggiore compagnia petrolifera italiana di revocare ogni impegno eventualmente già concordato con le autorità irachene.

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A quel punto Mattei fu costretto a scoprire le carte, osservando che una rinuncia italiana a collaborare con Baghdad avrebbe inevitabilmente aperto le porte della Mesopotamia ai tecnici sovietici. Qassem annunciò l’intenzione di avanzare formale richiesta di assistenza tecnica al governo italiano, in base a quanto previsto dall’accordo di cooperazione in vigore fra i due Paesi. Londra da parte sua aveva già fatto capire che ogni aiuto fornito a Qassem nel settore petrolifero sarebbe stato interpretato come una scelta anti-britannica. Roma fece sapere di aver disposto affinché non vi fosse alcun invio di tecnici italiani nei campi petroliferi in Iraq, ma in realtà l’Eni aveva già inviato un numero limitato di tecnici, solo nella seconda metà di agosto questi tecnici sarebbero stati richiamati in Italia.

Luisa Cuccu

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