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Settantasette anni fa, il 25 luglio 1943, il Gran Consiglio del fascismo sfiduciò Mussolini che venne fatto arrestare dal Re. Il crollo del regime, che aveva tenuto in pugno l’Italia per ventuno anni, rappresentò per molti la fine di un incubo. Mentre per altri, cresciuti sotto il mito dell’Impero e della superiorità della stirpe italica, fu una terribile e inaspettata tragedia.

Il luglio del ’43 accolse i romani con la sua aria pesante e sciroccosa, trascinando quella leggera corrente che porta con sé il calore della rosa dei venti. La gente, seduta davanti alle porte delle case e alle sedie dei bar, osservava assonnata le auto e le carrozze di passaggio, che col rumore delle ruote in movimento sull’acciottolato rompevano il silenzio. Nemmeno i gelati autarchici al gusto di frutta riuscivano a dare sollievo a quegli accaldati passanti, sudati come dei polli dentro un forno acceso. Nello sfondo, dietro l’aria distorta delle strade roventi, oltre l’asfalto che evaporava, un quadro di desolazione e di rovina stringeva come una terribile morsa il cuore dei romani. Le loro case erano state abbattute dai bombardieri alleati e sotto le loro macerie giaceva il quartiere di San Lorenzo. “Avessero almeno saputo tacere questi inglesi!”, borbottava la gente leggendo i giornali: “Si fossero almeno risparmiati questa inutile dichiarazione con cui avevano promesso al Pontefice che avrebbero rispettato le chiese, gli ospedali, le abitazioni civili, cercando solo di colpire gli obiettivi di carattere militare”. Un uomo seduto in un bar, vestito mezzo di nero e mezzo di grigioverde, con decorazioni, berrettone, gradi d’oro e d’argento, terminò il suo gelato autarchico e alzandosi brontolò con disappunto: “Parole di anglosassoni!”. Poi salì su una macchina grigia, lussuosa, rombante. Tutti lo osservavano: chi era seduto al bar, chi stava seduto davanti alle porte delle case, chi osservava assonnato le auto e le carrozze di passaggio, tutti fecero caso a quell’uomo che ad alta velocità si dirigeva verso il Corso. Era di sicuro un uomo importante, un gerarca, e quella sua fretta faceva interrogare i romani, ansiosi che qualche notizia potesse interrompere quella noia amplificata dal caldo.

*    *    *

Quel pomeriggio del 24 luglio la gente era tranquilla, sonnolenta, pigra come al solito. Solo in pochi sapevano della riunione del Gran Consiglio, pochissimi quello che stava per accadere. Ma quei pochissimi, assopiti ed eccitati allo stesso tempo, sparsero la voce per le vie e le botteghe romane e un piccolo pubblico si riunì dietro Palazzo Venezia, spalmato sui muri infuocati come tante lucertole al sole, ad osservare le auto che portavano i gerarchi a quella importante riunione. Tra quelle auto si poteva riconoscere quella grigia dell’uomo che andava di fretta, parcheggiata sopra un marciapiede di via Astalli. Davanti al grande portone del palazzo, le solite sentinelle sorvegliavano la soglia, cercando di tanto in tanto di nascondere il sole col palmo della mano. Verso la sera, mentre il sole cominciava ad allungare le ombre e i proprietari dei caffè abbassavano le rumorose serrande, la gente cominciava ad avviarsi verso casa, stanca di aspettare. Dalle finestre del palazzo trapelava un po’ di luce e sulle eleganti tende bianche che davano ai balconi si stagliavano delle ombre irrequiete e vivaci, mentre dietro il grande edificio rinascimentale le macchine erano sempre ferme, immobili sopra i marciapiedi. La riunione continuava e le strade si facevano deserte. Solo le arzille zanzare vagavano senza una meta precisa, scatenate sotto un pallido bagliore di luna.

*    *    *

Poco prima dell’alba, solo i lattai e i tranvieri mattutini si accorsero che i macchinoni neri, funerei dei gerarchi cominciavano a partire. Fu allora che da una piccola Topolino verde, fermatasi davanti al grande albergo di via Veneto, scese un giornalista inglese che agitando dei fogli che teneva in mano si rivolse al vecchio portiere che portava fuori la spazzatura: “Presto, un telefono. Hanno votato contro il Duce!”. La gente scese per le strade. Le voci erano ancora confuse ma nel complesso concordi. Un ragazzino, mentre correva e saltellava sul selciato bloccato dalle auto immobili con gli sportelli aperti, gridava: “È caduto Provolone, è caduto Provolone!”. Roma era ancora la città sonnolenta e pigra degli altri giorni, ma qualcosa cominciava a muoversi. I distintivi del partito cominciarono a sparire e i romani si accorsero di poter criticare Mussolini e la guerra a voce alta. Un bambino guardò il suo gelato autarchico e lo gettò per terra: “Che schifo!”, sentenziò. E pure lui si mise a correre, a saltellare canticchiando, senza ben capirne il significato, “è caduto Provolone, è caduto Provolone!”.

Stefano Poma

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Autore

ste.poma84@hotmail.it

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