Il Trattato di Versailles: storia di una pace cartaginese

Centodue anni fa, il 28 giugno 1919, nella reggia seicentesca di Versailles veniva firmato il Trattato che pose ufficialmente fine alla Grande Guerra. La Germania, sconfitta, doveva ridurre le forze armate, smilitarizzare il Reno, rinunciare alle colonie, all’Alsazia-Lorena e cedere parte del suo territorio alla Polonia. 

Nel corso del 1920 Ferdinand Foch, generale francese e protagonista indiscusso della Grande Guerra, proferì una frase destinata a entrare negli annali: “Quella firmata a Versailles con la Germania non è pace, ma un armistizio di vent’anni”. Prima ancora di addentrarci nell’analisi del documento vero e proprio, tuttavia, è opportuno discutere del meno conosciuto armistizio di Compiègne (11 novembre 1918), siglato nell’iconico vagone ferroviario riutilizzato dai nazisti per suggellare la resa della Terza Repubblica, nel giugno del 1940.

L’ARMISTIZIO DI COMPIÈGNE

Il fallimento dell’imponente offensiva di primavera, nel luglio del 1918, aveva palesato all’Alto Comando guglielmino (OHL) l’impossibilità di prevalere sulle forze alleate. Come se ciò non fosse bastato, l’imminente collasso degli Imperi centrali e l’arrivo del corpo di spedizione statunitense incrinarono irreparabilmente la situazione strategica, al punto da costringere i vertici militari a ricercare una soluzione alternativa. Fu così che, nella giornata del 29 settembre[1], l’OHL si rivolse alle autorità civili intimando di avviare le trattative diplomatiche. Si trattava nel concreto di un’operazione volta ad addossare il peso della sconfitta sulla sola classe dirigente; una mossa che, in ultima istanza, avrebbe contribuito negli anni successivi ad alimentare la leggenda della cosiddetta “pugnalata alle spalle”[2]. Al termine di una lunga attesa scandita dal divampare di episodi rivoluzionari in tutto il Reich, una delegazione diretta dal segretario di Stato Matthias Erzberger ottenne finalmente il permesso di recarsi in Francia (8 novembre 1918). Nondimeno, i margini concessi per la trattativa erano oltremodo ristretti: a Berlino vennero infatti concesse appena 72 ore per prendere una decisione, limitando i colloqui ai soli ufficiali di rango inferiore. Una volta appresa la durezza dei termini imposti, i funzionari tedeschi avrebbero cercato di stabilire un collegamento diretto con Berlino, ottenendo come unica risposta quella del Comandante Supremo dell’esercito, il settantunenne Paul von Hindenburg (1847-1934). Complice la delicatissima situazione interna e l’esaustione delle forze armate, egli diede disposizioni affinché l’armistizio venisse sottoscritto a qualunque costo, vanificando in tal modo ogni possibilità di strappare condizioni più favorevoli[3].

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Tra le molteplici disposizioni figuravano:

  1. L’immediata cessazione delle ostilità, sei ore dopo la firma del testo;
  2. Il ritiro, entro un lasso di 15 giorni, delle truppe tedesche da tutte le aree occupate in Francia, Lussemburgo, Belgio e dall’Alsazia-Lorena;
  3. L’abbandono, entro i successivi 17 giorni, di tutti i territori sulla riva sinistra del Reno, nonché il trasferimento delle guarnigioni di Magonza, Coblenza e Colonia alle truppe d’occupazione francesi;
  4. La rinuncia a 5.000 cannoni, 25.000 mitragliatrici, 3.000 mortai e 1.400 aeroplani;
  5. L’intera cessione delle navi da guerra più moderne;
  6. La consegna, a titolo di riparazione, di 5.000 locomotive e 150.000 vagoni ferroviari;
  7. L’annullamento del trattato di Brest-Litovsk;
  8. Il ritiro delle circa 190 divisioni tedesche, da concludersi entro il 17 gennaio 1919.

 

LA CONFERENZA DI PARIGI (1919)

Nel gennaio del 1919, due mesi dopo la formale cessazione delle ostilità, a Versailles si aprì la conferenza di pace che avrebbe dovuto plasmare il futuro dell’Europa post-bellica. La scelta del luogo non era stata affatto casuale: proprio qui, più precisamente nella sala degli specchi, il Kaiser Guglielmo I era stato infatti proclamato imperatore di Germania, sancendo così la nascita del secondo Reich. Ebbe a dire a riguardo il colonnello Edward House, stretto consigliere del presidente Woodrow Wilson: “L’intera faccenda fu subdolamente elaborata per umiliare l’avversario nel migliore dei modi”.

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Benché all’evento avessero preso parte i delegati di oltre 30 nazioni, il documento ufficiale fu redatto dai soli leader dei “quattro grandi”, vale a dire dalla Francia, dall’Italia, dal Regno Unito e dagli Stati Uniti d’America. Al contrario, gli sconfitti non vennero neppure ammessi ai colloqui. Del resto la difficile congiuntura internazionale imponeva di agire rapidamente: la smobilitazione degli eserciti stava procedendo con estrema celerità, mentre il concretizzarsi della minaccia comunista aveva risvegliato non poche preoccupazioni nel Vecchio Continente[4]. Fu allora che, nei primi giorni di maggio, gli Stati vincitori si risolsero nel sottoporre il testo del trattato alla delegazione teutonica. Quest’ultima si aspettava un accordo imperniato sui famosi 14 punti di Wilson, rivelatisi cruciali nella sottoscrizione dell’armistizio di Compiègne; certamente non che il loro Paese dovesse assumersi l’intera responsabilità del conflitto, né tantomeno che si accollasse le relative indennità economiche subendo ingenti decurtazioni territoriali[5]. Dal canto loro, gli USA intendevano rifondare l’Europa a partire dal principio dell’autodeterminazione dei popoli, auspicando perciò un nuovo assetto nel quale la soluzione delle controversie fosse demandata alla Società delle Nazioni. Alla prova dei fatti, tali velleità si sarebbero scontrate con l’intransigenza del Primo Ministro francese, Georges Clemenceau, irremovibile nel punire gli antichi rivali con formule vessatorie.

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E l’Italia? Benché avesse visto il proprio nome annoverato fra quello dei vincitori, Roma non riuscì in alcun modo ad ottenere quanto le era stato promesso negli accordi di Londra, ponendo così le solide fondamenta per il mito della “vittoria mutilata”. Volgendo uno sguardo alla Gran Bretagna, è invece corretto asserire che Lloyd George volesse riaffermare la supremazia imperiale in molteplici ambiti, in primis conservando quello status di potenza marittima costruito nel corso dei secoli. Al tempo stesso, egli guardava con apprensione a un eccessivo indebolimento della Germania, passibile di trasformarla in un pericoloso vettore attraverso cui inoculare il veleno del comunismo.

 

LE CLAUSOLE DEL TRATTATO

Per cogliere appieno la durezza dei termini imposti dagli Alleati, è sufficiente dare un’occhiata agli articoli concernenti le clausole territoriali. Oltre a prevedere la restituzione immediata dell’Alsazia e della Lorena, annesse nel 1871 al termine della fulminea guerra franco-prussiana, il trattato di Versailles statuiva la cessione delle aree di Eupen-Malmedy e della Saar, quest’ultima destinata a rimanere indipendente sotto la formale tutela della Società delle Nazioni[6]. Benché non avesse partecipato alle ostilità, alla Danimarca venne comunque garantito il controllo dello Schleswig settentrionale, perduto nell’omonimo conflitto del 1864. I punti che andavano dall’81 all’86 obbligavano inoltre la repubblica di Weimar a riconoscere i territori della neonata Cecoslovacchia, la quale ospitava al proprio interno una consistente minoranza teutonica[7], mentre quelli dall’87 al 93 le imponevano di fare altrettanto con la Polonia. Varsavia ricevette così parte della Prussia occidentale, della Silesia e il famoso corridoio sul Baltico[8], mentre lo snodo portuale di Danzica assunse lo status di città libera. Con riferimento alla zona del Memel, gli Alleati ne disposero invece il trasferimento nelle mani della Lituania.

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Diverso risultava essere il discorso sulla smilitarizzazione della Renania, invero affrontato negli articoli 42, 43 e 44. In essi infatti si ribadiva che alla Germania era severamente proibito: “di mantenere o costruire qualsiasi fortificazione, o sulla riva sinistra del Reno, o su quella destra a ovest di una linea tracciata 50 km a est del fiume[9]. L’intera regione venne peraltro divisa fra le potenze vincitrici, con importanti località come la Ruhr occupate in seguito ai continui ritardi nel pagamento delle indennità. A questo riguardo, lo storico americano Gerhard Weinberg ebbe a dire che il disegno costituiva la principale assicurazione di pace in Europa, impedendo non solo a Berlino di condurre qualunque azione a carattere offensivo, ma lasciandola indifesa nei confronti di un’eventuale offensiva da ovest. Nondimeno, una volta che gli ultimi contingenti francesi ebbero evacuato l’area (giugno 1930), Parigi non poté più esercitare il ruolo di “garante” degli equilibri strategici, spianando in tal modo la strada al riarmo tedesco.

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Infine, l’articolo 80 stabiliva il divieto tassativo per l’Anschluss, vale a dire l’annessione dell’Austria, mentre il 119 decretava la perdite delle colonie africane e asiatiche a pieno vantaggio del Belgio, della Francia e del Regno Unito. In sintesi, la Germania perse oltre 43.450 km² del proprio territorio, equivalenti a circa il 13% della sua estensione, assieme a una popolazione di ben 7 milioni di individui.

Mirko Campochiari

Niccolò Meta

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[1] In quello stesso giorno, nella odierna città di Salonicco, la piccola Bulgaria stipulava un armistizio con gli Alleati. Di lì a breve sarebbe stata la volta dell’impero ottomano (30 ottobre) e dell’Austria-Ungheria (3 novembre).

[2] Con l’espressione “pugnalata alle spalle” (letteralmente Dolchstoß) si è soliti indicare la leggenda per la quale il Secondo Reich, malgrado le pesanti sconfitte subite nell’estate del 1918, fosse ancora in grado di condurre la guerra con gli Alleati. A determinarne la resa sarebbe stato il tradimento perpetrato dalla classe politica con la complicità di ebrei, socialisti e comunisti.

[3] Seppur in pieno ripiegamento dopo la cosiddetta “offensiva dei 100 giorni”, ‘esercito tedesco controllava ancora numerosi territori compresi tra la Francia e il Belgio. Accettando le condizioni dell’Intesa, Berlino rinunciò alla possibilità di minacciare una (inverosimile) ripresa delle ostilità.

[4] Emblematica risultò essere la rivolta spartachista, guidata dai rivoluzionari Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. Internati per il loro attivismo anti bellicista, nel 1919 guidarono l’insurrezione contro il governo  del socialdemocratico Ebert, trovando la morte per mano dei Freikorps.

[5] Questi territori furono scelti oculatamente dato che contenevano zone altamente industrializzate e ricche di bacini carboniferi e di metalli indispensabili per un industria pesante.

[6] Le disposizioni del trattato stabilivano che, al termine di un periodo lungo quindici anni, nella regione si sarebbe dovuto tenere un plebiscito per deciderne le sorti. La consultazione venne vinta dai fautori della riunificazione con la Germania.

[7] Emblematico risultava essere il caso dei Sudeti, annessi dalla Germania nel 1938 in ottemperanza al principio di autodeterminazione.

[8] Il corridoio di Danzica è stato una striscia di territorio creata per garantire alla Polonia uno sbocco sul mare. Divideva la Germania di Weimar dalla Prussia orientale.

[9] Alla Germania era inoltre vietata la mobilitazione di truppe entro 50km dalla  suddetta linea, ampliandola di fatto a 100km.